Anatomia di un premio

Anatomia di un premio

Un progetto di interrogativi e riflessioni a cura di lacasadargilla e Associazione Ubu per Franco Quadri

In occasione della 46esima edizione dei Premi con lacasadargilla – che ha curato la direzione artistica della serata di consegna dei Premi Ubu 2024 – abbiamo inviato una serie di domande a tutti gli artisti e le artiste nominati/e: interrogativi che sono serviti sia ad incoraggiare un discorso condiviso durante la cerimonia sia a trasmettere il senso di ciascun lavoro che sta dietro alla costruzione di un progetto teatrale, tra passione e realismo produttivo. Anatomia di un premio desidera  portare a galla e condividere con gli spettatori e gli ascoltatori il pensiero che sta ‘sottotraccia’ al fare teatro, declinato per ciascuna categoria del premio.


Spettacolo di teatro

Dove iniziano le premesse – artistiche e operative – necessarie e condivise alla costruzione collettiva di un progetto che arriva a vincere come miglior spettacolo? Il premio allo Spettacolo è il riconoscimento a un intero organismo in grande equilibrio, frutto di una progettualità collettiva, dove non c’è solamente l’ensemble artistico ma quello produttivo, tutti gli accompagnatori e i partner ragionativi.

La Ferocia (ideazione VicoQuartoMazzini, regia di Michele Altamura e Gabriele Paolocà)

La scelta di essere una compagnia ci ha sempre posto di fronte alla necessità di un costante dialogo, alla malleabilità e alla sfida della trasformazione. Con La Ferocia abbiamo praticato questo esercizio che dal piccolo della nostra esperienza, da indipendenti, siamo riusciti a trasmettere anche a questa grande squadra produttiva: accettare e mettere a valore ognuna delle parti in causa, comporre le diversità e trasformarle in un valore aggiunto. È quello che abbiamo provato a fare dal primo giorno di prove del nostro primo spettacolo, tanti anni fa. Oggi, osservando il percorso di questa produzione, ci accorgiamo che le premesse si fondono con i risultati, diventando indistinguibili. La Ferocia è il tentativo caparbio e incessante di restare in ascolto e tradurre artisticamente le domande che sentiamo vicine quando guardiamo al presente.

Il grande vuoto (regia di Fabiana Iacozzilli)

Per la scena de Il grande vuoto Paola Villani ha realizzato una parete-libreria di più di sei metri di lunghezza sulla quale esporre i ricordi di una vita come accade nella maggior parte degli interni borghesi. Ad ogni collaboratrice, artista, tecnico, e partner produttivo che ha attraversato la creazione dello spettacolo è stato chiesto di lasciare su quella libreria un proprio oggetto, un ninnolo che potesse entrare a far parte della memoria della famiglia che avremmo portato in scena, per creare un passato che fosse condiviso da tutte e tutti noi. Forse è proprio in quei sei metri di soprammobili e memorie condivise, tra le videocassette di Hubert Westkemper, l’insalatiera di Mara, la cuoca della Corte Ospitale, le coppe del fratello di Piero Lanzellotti e l’omino ciao dei mondiali Italia 90 che mi regalò mio padre che risiedono le premesse per costruire uno spettacolo che potrebbe rimanere nel tempo.

Trilogia della città di K. (un progetto di Federica Fracassi e Fanny & Alexander; regia di Luigi De Angelis)

La premessa è nella scrittura di Agota Kristof, nelle sue immagini che sono state per me un segno fondante e indelebile e che feriscono ancora e ancora. Le sue parole devono risuonare in teatro, mi dico. Immagino un paesaggio che potrebbe anche non contenermi o contenermi piccolissima – processo in effetti bizzarro per l’ego dell’attrice. 

Non reggo da sola l’immagine che mi arriva in dono. Per farla fiorire devo trovare i compagni migliori. Le compagnie, così messe in difficoltà oggi fino a spingerle all’estinzione, nascono e si rinnovano su questo scegliersi specialissimo, ce lo insegnano, ma ci sono anche i compagni migliori per un tratto di strada: si suppone che anche loro portino tatuata sottopelle da sempre la cosa da raccontare insieme. I miei migliori per il mondo di Agota sono Chiara Lagani e Luigi De Angelis, anche compagnia Fanny & Alexander: per il loro lavoro sull’infanzia, sulla crudeltà, sul linguaggio. Sono geniali, sono speciali. Claudio Longhi e tutto il Piccolo Teatro di Milano si rivelano i nostri migliori compagni produttivi. Straordinario è il loro sostegno a un progetto proposto da un’attrice smarginante non titolata da altro che non sia il suo percorso (una teatrante come diceva un tempo la carta d’identità). E questo denota un rischio fuori categorie che di per sé sorprende e sa di buono. E’ scontato che gli artisti si appassionino. Il potere gioca spesso sulla loro resistenza entusiasta al di là del sopportabile. Ma non lo è altrettanto per chi si trova a dirigere, a organizzare, a gestire del denaro pubblico. Claudio Longhi, Alberto Benedetto, Eugenia Torresani e tutti i collaboratori fino ai macchinisti in fila a prendere gli applausi ci hanno mostrato che anche una grande istituzione come il Piccolo può mettere a disposizione i giusti mezzi per far nascere un progetto, con passione. Questo spettacolo è il risultato del lavoro di persone con talenti grandissimi che non hanno mai smesso di sentire questo progetto come il loro progetto. L’essere compagni, che a volte si costruisce in anni di vicinanza, è stato nel nostro caso subito realtà: la regia, la scrittura, gli attori, i tecnici, i collaboratori, i mezzi e i modi con cui si è lavorato, il rapporto con gli spettatori, lo sguardo di chi ha raccontato e comunicato. Un dono che può accadere. Ma anche no. Non esistono ricette, procedimenti per tutti validi. Però potrei azzardare che il cuore di questo lavoro, in un’epoca di efferato narcisismo, è sorprendentemente nella rinuncia alla centralità del sé in nome di qualcosa di più grande. Che poi è l’ascolto. Che poi è l’amore. (Federica Fracassi) 

Nel dna del teatro, e più ancora delle compagnie indipendenti (da cui tutti, o quasi tutti, gli artisti della Trilogia della Città di K. provengono), esiste una forte impronta al lavoro corale e collettivo. Lavorare in gruppo è sapere che l’equilibrio delle forme non è mai intoccabile, tutto si muove di continuo. Lavorare in gruppo è accendersi del desiderio altrui, trasformarsi davanti allo sguardo dei compagni, conoscere la fiducia cieca e temeraria che concede al tuo singolo lavoro più tempo e più spazio. Un romanzo fortissimo ha condotto la traiettoria del viaggio, chiedendoci d’essere decifrato e poi riconsegnato, senza perdere la sua natura d’enigma, agli occhi degli spettatori. Questa tensione comune ci ha guidati in una sorta di innamoramento perpetuo – perché cos’altro è ogni volta quel tempo concentrato in cui i corpi, le immagini, le voci sembrano ardenti conduttori di senso e di possibilità? E poi c’è il teatro in cui abbiamo creato il nostro spettacolo. Un teatro è un luogo, fatto di persone, che custodisce un segreto senza tradirlo mai, assecondando la creazione, proteggendo le fragilità, fornendo ali al desiderio. Questo teatro, le persone che ci lavorano, la sua stessa storia hanno reso possibile il percorso entusiasmante verso la Città in un modo che, dobbiamo dirlo, è davvero raro sperimentare. (Chiara Lagani)

Spettacolo di danza 

Dove iniziano le premesse – artistiche e operative – necessarie e condivise, alla costruzione collettiva di un progetto che arriva a vincere come miglior spettacolo? Il premio allo Spettacolo è il riconoscimento a un intero organismo in grande equilibrio, frutto di una progettualità collettiva, dove non c’è solamente l’ensemble artistico ma quello produttivo, tutti gli accompagnatori e i partner ragionativi.

redrum (di Marco Valerio Amico, Rhuena Bracci)

Lo Spettacolo è il territorio di confronto che determina l’invito a far parte di una piccola comunità, di un gruppo, che condivide la propria pratica, la propria ricerca, la propria curiosità, il proprio affondo linguistico. Per preparare lo spettacolo, il gruppo non può fare a meno del tempo che sta tra le maglie del tempo produttivo: il tempo necessario a riconoscere ogni soggettività perché si faccia strumento così da generare un ambiente sinfonico-jazzistico; il tempo per la creazione del linguaggio. Si perdono i confini tra creativo, relazionale, produttivo, organizzativo; si sfumano i confini tra gli strumenti (corpo, luce, suono, scena, costume). Tutto concorre alla costruzione e alla resa del linguaggio, alla conoscenza attraverso i sensi che si determina grazie alla cooperazione di ogni individualità coinvolta. Da questo lavorio se ne esce con languore e da questo stato si può accogliere lo sguardo del pubblico.

Stuporosa (di Francesco Marilungo)

Francamente non so quali possano essere le premesse per vincere un premio Ubu. Ripensando a quanto è accaduto con Stuporosa, la prima immagine che mi viene in mente è quella di un ecosistema. Un insieme complesso di interrelazioni tra organismi viventi e i loro habitat fisici, un microcosmo in cui ciascuno è responsabile dell’equilibrio e del funzionamento complessivo. Ogni partecipante è stato fondamentale, così come è stato fondamentale che si instaurasse un rapporto di parità e di reciproca fiducia.Il confronto continuo tra le parti ha permesso la nascita e la sopravvivenza di un microcosmo. Il collante e nutrimento di tutto il sistema sono state quelle forme di affettività che hanno consentito di agire nei confronti degli altri come un soggetto unitario. Relazioni empatiche che hanno garantito armonia e supporto reciproco. Infine, aspetto non trascurabile – per dare vita a qualcosa che ancora non esisteva è stato necessario un sacrificio. Sacrificio nel senso di ‘rendere sacro’ il processo creativo attraverso molteplici rinunce. Sacrificio anche come impegno e fatica per mantenere il funzionamento di un meccanismo così complesso. Con Stuporosa si è creato un ecosistema, un organismo che ancora continua a vivere e a svilupparsi in maniera quasi rizomatica generando nuove ‘forme di vita’.

U. (un canto) (di Alessandro Sciarroni)

Il mio lavoro nasce sempre da un’intuizione poetica generata dal contesto politico e culturale in cui viviamo. U. ad esempio, nasce tra il 2023 e il 2024: anni disastrosi per la cultura e la politica italiana. Negli stessi giorni in cui parte del cda dei Teatri di Roma decideva di ignorare 42 progetti di altrettanti curatori e curatrici compiendo un vero e proprio blitz per imporre una direzione artistica di nomina politica, alcuni studenti delle scuole superiori venivano repressi con violenza dalla polizia mentre protestavano contro il genocidio del popolo palestinese. Mentre in parlamento venivano vagliate proposte per silenziare la voce degli artisti alla televisione pubblica, il Museo MAXXI accoglieva nella sua programmazione dibattiti dai toni misogini e la presentazione di un libro di propaganda sionista.

In questo clima di disastro politico e culturale la forma della mia ricerca poteva essere solo una: il canto.

Un canto, che ci ricordasse dei tempi in cui il genere umano viveva ancora in armonia con la natura.

Un canto, in cui si potesse rendere grazie per la vita e per la morte.

Un canto, che ponesse al pubblico domande importanti in maniera semplice: ma dove andate se non avete cuore? Cosa cercate se non avete mani per sognare? Ma dove andate se non sapete amare?

Regia

Come si riesce a guidare, gestire e accogliere tutto il capitale umano e il talento che abbiamo visto sul palco stasera ad esempio, mettendoli a valore senza esserne travolti o ucciderli? Cos’è un regista in fondo? Una piccola indicazione di rotta.

Michele Altamura e Gabriele Paolocà (La Ferocia)

Fare regia è inventare un linguaggio, progettare da zero un sistema simbolico che sappia diventare comunicazione, trasmissione. La regia deve avere la capacità di leggere i diversi momenti del processo di creazione e condurre tutto il gruppo (artistico, tecnico, produttivo) a un’acquisizione progressiva di questo nuovo lessico, lasciando spazio al costante dialogo tra le proprie intuizioni di partenza e lo stupore per ciò che non aveva programmato.

Per riuscire nel suo scopo linguistico deve saper essere persuasiva, deve avere la forza e la passione necessarie a convincere che quella usata è l’unica lingua possibile per esprimere la visione alla base dello spettacolo. Quando ci riesce, se ci riesce, attori, collaboratori e spettatori non possono far altro che abbandonarsi con entusiasmo all’esperienza.

Luigi Noah De Angelis (Trilogia della città di K.)

Voi qui state puntando un faro su un albero, come se svettasse solitario, ma dietro a un singolo albero che svetta c’è sempre un groviglio invisibile, meraviglioso, fatto di altre piante, o funghi sotterranei, che lo nutrono e sostengono, interconnessi, oppure di altri alberi che svettano accanto a lui, senza mai farsi ombra a vicenda. Penso a Chiara Lagani, che ha  adattato in maniera geniale i romanzi di Kristof, compagna spericolata  di una vita assieme a Marco Molduzzi e tutto Fanny & Alexander, o all’intuizione visionaria di Federica Fracassi, senza il cui desiderio di condivisione non sarei qui questa sera.

Il regista, nel mio caso, è l’architetto delle scelte, che progetta un sistema complesso, un’architettura, nata dall’interazione tra luce, spazio, voce, gesto e suono, in cui immergere i performer e lo spettatore. La mia è una forma di regia gentile, tutto deve convergere per indurre la sensibilità di un performer a una scelta autonoma, istintiva, che si basi sul suo sapere, quello della propria tecnica e della propria vita. Se devo convocare un’immagine del mio modo di intendere la regia, convoco quella di uno stomaco, anzi di più stomaci, come nel sistema digestivo di un’ovino, dalle pareti elastiche, stomaci porosi, dediti alla lenta digestione, in più fasi, dei nutrienti che ricevono: di fatto io mi occupo degli enzimi, delle muffe, dei reagenti, di stimoli omeopatici, di lievitazioni. Sono un architetto agopuntore…

Allo stesso tempo essere regista implica  una zona di solitudine assoluta, da cui permettersi di far sgorgare in maniera istintiva il proprio inconscio, fidandosene ciecamente. È proprio la qualità fluida di questo rubinetto sgorgante, che permette alla regia di connettere poesia e architettura, progettualità e istinto creativo. Dedico questo premio a Franco Quadri, al suo sguardo incandescente e visionario, connettivo. I premi per Franco dovevano essere un messaggio al teatro, non una fotografia. Se mai un discorso in levare, un vento su delle braci incandescenti.

Fabiana Iacozzilli (Il grande vuoto)

La scelta di rendere tutte e tutti parte di quella grande parete ha a che fare con il modo che ho di intendere il mestiere che faccio. Credo si possa essere registe oggi solo se si riesce ad accogliere il capitale umano che ti si para davanti e penso anche che – in fondo – le premesse per arrivare a costruire uno spettacolo importante risiedano proprio nella capacità che non sempre si ha di far brillare quel capitale umano. È faticoso essere in grado di farlo, doloroso a tratti, perché il teatro ha a che fare con l’idea di catastrofe e il concetto di famiglia, con le storture e gli stati di grazia che caratterizzano i rapporti famigliari. Una regista può tenere insieme e guidare il gruppo senza troppi spargimenti di sangue facendo sentire tutti e tutte, in ogni fase del progetto, parte e cuore del processo creativo, non smettendo mai di dialogare con la possibilità del fallimento e, certamente, mantenendo un sano rapporto con la pratica dell’ironia.

Leonardo Lidi (Progetto Čechov)

–        studiare;

–        andare a teatro tutte le sere che non gioca il Milan;

–        ricordarsi di Enzo Jannacci e Massimo Sgorbani;

–        non annoiare troppo;

–        ricercare la sintesi.

 

Claudio Longhi (Ho paura torero

Difficile rispondere, oggi, alla domanda chi sia (o cosa sia?) un regista – in un tempo che, dopo gli splendori e le vertigini del XX secolo, sta prendendo sempre più le distanze dagli slanci, dalle utopie, dai rigori, dalle illusioni, dagli incantamenti e dagli abbagli del canto di sirene della Regia (novecentesca), moltiplicandola, indebolendola, decentrandola in drammaturgia o in gioco dell’attore… Forse la regia, oggi, è, tecnicamente, sguardo e ascolto – ma anche tatto e gusto – e, insieme, discorso e traduzione; impegno a ri-pensare il teatro (o un teatro); amore dell’Altro; passione per l’atto del produrre più che per il prodotto; coscienza dell’eclissi della Verità e strenua rivendicazione della necessità di un punto di vista sulla molteplicità; vita tra le pieghe e negli interstizi; strappo, ferita e cesura; e ancora, sempre: assunzione di responsabilità politica del proprio fare.

Attrice o performer

La nozione di scelta è la grande questione dell’interprete. Interprete appunto del disegno, della tesi o tema, del pensiero di un altro sia esso regista e/o drammaturgo Imparare a scegliere quello che si vuole fare veramente, o fare di tutto per capire con più esperienza cosa si voglia veramente, o ancora non voler scegliere, accogliere ciò che capita e solo dopo capire che è diventata una scelta. Se doveste dare un consiglio a voi stessi nel passato o nel futuro sulla necessità della scelta, la possibilità di una scelta, l’impossibilità, la bellezza e le limitazioni delle scelte, quale sarebbe?

Sonia Bergamasco (La locandiera)

Sento che scegliere ha sempre a che vedere con l’ascolto di sé. È quindi un processo, qualcosa che si svela attraverso. A volte pensi di non avere scelta, di avere già scelto, di essere stato scelto. Difficilmente è così, ed è avventuroso e strano scoprire quanta vita segreta alimenta i nostri passi, e li fa diversi da quelli dell’altro. Ascoltarmi è stata per me una necessità, ma anche un nutrimento. Ora forse posso dire che le scelte sono più personali, più forti, più concrete degli inizi, nel mio percorso di lavoro. Ma forse non è vero, o non sono io che devo dirlo, forse lo potrà dire qualcuno che mi guarda da lontano. Amo l’incognita, la sorpresa, le carte che si sparigliano. L’ imprevisto, l’inatteso mi aiutano a valutare con più attenzione la scelta, a volte a ridimensionarla.   

Francesca Mazza (La Ferocia)

Nella mia vita teatrale, fatta eccezione per piccoli episodi, non ho mai scelto, sono sempre stata scelta e, obbediente, ho sempre accolto gli inviti con curiosità e gratitudine. Resta il cruccio che, caratterialmente, non so e non ho mai saputo dire di no e questo mi ha portato a subire scelte non mie, ad accettare passivamente situazioni e accadimenti.

Ma, in teatro, i tanti sì che ho detto sono stati la mia fortuna, le tante porte attraverso cui sono passata, gli incontri preziosi, fondamentali, inaspettati eppure giunti; pietre di un mosaico, necessarie a comporre il disegno della mia esperienza (la cicogna di Karen Blixen ma per me, anche un insetto andrebbe bene o una piantina).

Sono certa che non sarei stata in grado di scegliere tutta la bellezza che ho trovato e che mi ha trovato. Del resto, la vita stessa è una chiamata, a prescindere dalla nostra volontà.

 

Giusi Merli (Il grande vuoto)

Se per scelta si intende il modo di dire una frase, per esempio di Shakespeare, “… E questa creatura delle tenebre, io la riconosco come mia…” (Prospero nella Tempesta), allora il consiglio che mi darei, sarebbe di discutere a fondo con il regista e con il testo, per essere capace come uno specchio di riflettere il pensiero e il mondo immaginifico dell’autore. Oppure, facendo di testa mia, dare più opzioni interpretative permettendo al regista libertà di scelta. Oppure dirla lasciando scegliere l’inconscio: spesso questa è la migliore, perché c’è lo zampino del Dio del teatro che si manifesta in modi non razionali. Proprio perché la scelta ha in sé possibilità, impossibilità, bellezza e limitazioni, il mio consiglio è: ogni volta essere aperti ad accogliere il nuovo in qualunque forma si presenti e non averne paura o auto-censurarsi.

Attore o performer

La nozione di scelta è la grande questione dell’interprete. Interprete appunto del disegno, della tesi o tema, del pensiero di un altro sia esso regista e/o drammaturgo Imparare a scegliere quello che si vuole fare veramente, o fare di tutto per capire con più esperienza cosa si voglia veramente, o ancora non voler scegliere, accogliere ciò che capita e solo dopo capire che è diventata una scelta. Se doveste dare un consiglio a voi stessi nel passato o nel futuro sulla necessità della scelta, la possibilità di una scelta, l’impossibilità, la bellezza e le limitazioni delle scelte, quale sarebbe?

Alessandro Berti (Trilogia della città di K.)

Le scelte possibili sono tante: se farlo o non farlo, l’attore, innanzitutto. Poi, man mano che si comincia, se farlo in un modo o in un altro. Se farlo tutto all’interno dell’ambiente artistico, conoscendo l’ambiente sempre meglio e adattandovisi, oppure tenere aperta la porta della vita, della biografia, con le lentezze e le fatiche che questo comporta. Si può stare nell’ambiente da cesellatori artigiani o da tartufi ambiziosi. E si può essere aperti alla vita da romantici disperati che lo fanno per estrarne storie oppure da umani attenti che s’interrogano sul senso di essere al mondo. Trent’anni fa io ho scelto di non dover scegliere, cioè di interpretare solo testi scritti da me o almeno spettacoli diretti da me, capocomico di altri attori. La sensazione era che, da attore, non sarebbe  stato semplice avere il coltello dalla parte del manico. Ma la mia è stata davvero una scelta? Non ho mai dubitato, a vent’anni, di quello che mi si poneva davanti con la chiarezza marmorea di una vocazione. Scrivo e recito da quando ero bambino. Come sa chi mi conosce, io ho fatto entrare tanta vita, tanta biografia, nel mio percorso di attore. Ma poi l’ho cesellata lungamente, perché scomparisse dentro il ritmo della poesia. Quindi mi sento in una posizione di confine. Ma ogni attore in fondo è in questa posizione. Gettato nella trincea infuocata tra ideazione, interpretazione e ricezione, l’attore è un guerriero all’arma bianca, inevitabilmente poroso. Se accetta questa posizione, il suo strumento sarà capace di suonare con la purezza di una voce trovata, che trascende chi la emette. L’attore, corpo ultimo nella catena dei saperi teatrali, voce definitiva e imprendibile, ambasciatore fisico dei messaggi, dovrebbe riflettere quotidianamente su tutto questo. Anche proprio per verificare, e vivificare, i suoi criteri di scelta.

Ricordo bene la telefonata di Chiara Lagani, una mattina, io in treno, che mi chiede: è una follia chiederti di fare il protagonista della Trilogia in una produzione di due mesi al Piccolo? Se è una follia, dimmelo tranquillamente. E io che le rispondo: è una follia, del tutto. Quindi fammici pensare. E questo accenno alla follia mi fa chiudere con Basaglia. Un aforisma a lui attribuito ma che probabilmente in quegli anni circolava recita così: dobbiamo passare dall’etica del lavoro all’etica delle relazioni. Per me, cresciuto nell’Emilia luterana e perfezionista, è un motto luminoso che ho cercato faticosamente di seguire.

Leonardo Capuano (La Ferocia)

Imparare a scegliere quello che si vuole veramente è il consiglio che cerco di dare a me stesso e non da oggi ma da quando ho deciso di fare questo lavoro, il lavoro dell’attore.

Imparare attraverso lo studio

imparare attraverso l’analisi

imparare attraverso il lavoro in sala

Quando inizio un lavoro non so mai cosa andrò a fare e come lo farò: il lavoro stesso sarà lo strumento per capirlo.

La pratica del lavoro permette di scegliere, così che ogni volta che mi appresto ad affrontare un progetto è come ricominciare da capo.

 

Lino Guanciale (Ho paura torero)

Al me stesso del passato – il me stesso di vent’anni, dico! -, per imparare cosa significhi scegliere farei leggere Genet prima di quanto abbia effettivamente fatto, e gli consiglierei di andare al circo più spesso. Di osservare famelicamente l’istante in cui l’acrobata o il funambolo decidono di saltare o di fare un passo, il momento immediatamente precedente la scelta di ogni azione scolpita nel vuoto, di ogni sfida alla possibile caduta. Che ogni gesto ne escluda un altro, che ogni scelta recida l’illusione dell’onnipotenza è cosa terribile e grande: la bellezza sta nella rinuncia alla statica potenzialità, sta nell’accettare il rischio del fallimento come unica via possibile per ogni costruzione, per ogni progetto.

Nulla è scontato in una frase, gli direi, comprendilo presto: le parole presenti su un rigo siano come filigrana attraverso cui far balenare tutte quelle assenti, tutte le altre possibili.

Attrice o performer under 35

La nozione di scelta è la grande questione dell’interprete. Interprete appunto del disegno, della tesi o tema, del pensiero di un altro sia esso regista e/o drammaturgo Imparare a scegliere quello che si vuole fare veramente, o fare di tutto per capire con più esperienza cosa si voglia veramente, o ancora non voler scegliere, accogliere ciò che capita e solo dopo capire che è diventata una scelta. Se doveste dare un consiglio a voi stessi nel passato o nel futuro sulla necessità della scelta, la possibilità di una scelta, l’impossibilità, la bellezza e le limitazioni delle scelte, quale sarebbe?

Chiara Ferrara

Sono un’ignava. Vorrei poter non scegliere mai e dire di sì a tutto e a tutt*; proprio per questo, in conclusione al percorso della Bottega Amletica Testoriana, quando Antonio Latella ci ha lasciat* una frase a testa da portare con noi nel Mondo a me ha detto: “Devi imparare a dire di no”. Parto dal fatto che se ho la fortuna di fare Teatro è perché non ho potuto non scegliere di fare Teatro. In un mondo ideale direi che le scelte più belle sono quelle che non si fanno consapevolmente. In un mondo un po’ più reale le scelte migliori sono quelle il cui esito ci dà la sensazione di “stare bene”. In questo mondo, alla Me del passato del futuro e del presente che sta imparando a scegliere e che sceglie a volte bene e a volte male e a volte ancora non l’ho capito direi scegliere di: Camminare in questo mondo per crescere, conoscere e poi condividere. Sbagliare, conoscere e poi condividere. Amare, conoscere e poi condividere. “Sostare o andare e andare. Andare o restare – Accogliere la distesa e quello che viene. Accogliere e in sé risuonare. O darsi in opere e faccende, scatenare le braccia in zappate potenti e le dita accanirle in opere e faccende e raccolta.”

Sara Sguotti

Ciao, mi chiamo Sara, ho 34 anni, sto per diventare madre, non ho avuto la possibilità di avere una formazione accademica riconosciuta, sto ancora studiando all’università per poter avere un titolo di studio che abbia un valore nel sistema italiano e che mi permetta di avere più possibilità future anche nello stesso campo culturale, sono in costante migrazione sia dal punto di vista geografico che in quello artistico.

Danzo perchè non posso fare altro.

Questa mi sembra già una piccola storia.

I miei genitori mi hanno permesso di scegliere fin da piccola cosa fare sottolineandomi l’importanza dell’indipendenza economica sia da loro che dagli altri.

Ecco nel mio mondo che è molto diverso da quello del teatro di prosa o da quello del cinema o della performance, per contratto nazionale, per dinamiche, per gusti, per economie, rimane un lusso di pochi poter scegliere.

Ho sempre avuto il privilegio di essere curiosa e vorace, qualità che mi hanno permesso di vivere molte esperienze e di collaborare con un’ampia varietà di persone, sia come interprete che come coreografa.

La fortuna è ed è stata aver incontrato tante persone diverse per formazione, gusto e pratiche che nella buona e nella cattiva sorte mi hanno permesso di formare un pensiero che continua ad evolversi.

 

Beatrice Vecchione

Credo che uno dei motori che spinge il lavoro di un/una interprete sia quello della curiosità.

La curiosità di conoscere altri mondi e di abitarli.

Credo che dietro questa curiosità si nasconda una fame di vita, di bellezza, di conoscenza.

Di fronte a questa fame a volte è complesso scegliere.  Specie se si è giovani e i confini del “io voglio questa cosa qui” sono ancora un po’ sbiaditi: mancano pezzi di consapevolezza su di sé, sul mondo, perché ci si sta scoprendo- certo non si finisce mai in tal senso- ma forse da giovani si lasciano più porte aperte perché si desidera capire “questa cosa qui” dove mi può portare e se fa per me.

Credo che la scelta sia una meravigliosa opportunità di fare dell’incontro con l’Altro ( regista, drammaturgo/a) e il proprio personale vissuto una sintesi generatrice di altra vita, altre vedute, nuove … inaspettate.

Credo altresì che quando si inizia a scegliere si diventa un po’ più liberi. Liberi dai se e dai ma, di poter fare tutto e ovunque. Liberi dalla paura di non piacere…

Il consiglio e l’augurio che do alla me del futuro, perché a lei voglio guardare, è sia quello di rimanere sempre aperta all’incontro con l’Altro da sé, che quello di non aver paura di compiere scelte coraggiose.

E anche quando quel processo di consapevolezza acquisterà tratti più nitidi, e le idee saranno più chiare, di non accontentarmi di ciò che ho capito, delle mie certezze, ma di saperle mettere in gioco, al servizio di un progetto, col desiderio di cercare l’autenticità.

Attore o performer under 35

La nozione di scelta è la grande questione dell’interprete. Interprete appunto del disegno, della tesi o tema, del pensiero di un altro sia esso regista e/o drammaturgo Imparare a scegliere quello che si vuole fare veramente, o fare di tutto per capire con più esperienza cosa si voglia veramente, o ancora non voler scegliere, accogliere ciò che capita e solo dopo capire che è diventata una scelta. Se doveste dare un consiglio a voi stessi nel passato o nel futuro sulla necessità della scelta, la possibilità di una scelta, l’impossibilità, la bellezza e le limitazioni delle scelte, quale sarebbe?

Alfonso De Vreese

Mi consiglierei di leggere subito “Lezioni di fotografia” di Luigi Ghirri: “Credo che la fotografia possa metterci in relazione con il mondo in maniera profondamente diversa. La fotografia rappresenta sempre meno un processo di tipo conoscitivo, nel senso tradizionale del termine, o affermativo che offre delle risposte, ma rimane un linguaggio per porre delle domande sul mondo. Io, con la mia storia, ho percorso esattamente questo itinerario, relazionandomi continuamente con il mondo esterno, con la convinzione di non trovare mai una soluzione alle domande, ma con l’intenzione di continuare a porne. Perché questa mi sembra già una forma di risposta

Quindi per me “la scelta” è come il momento appena prima di premere il pulsante di scatto, quando guardi nel mirino di una macchina fotografica e non sai che cosa si imprimerà nella pellicola, come si imprimerà e il negativo lo vedrai comunque quando sarai lontano nel tempo e sarai già diverso.

Valentino Mannias

Ricordo che a diciannove anni ero in procinto di lasciare la Sardegna e trasferirmi in continente, come diciamo dalle nostre parti, per cominciare il corso di recitazione all’Accademia d’arte drammatica Paolo Grassi. Attraversare il mare mi veniva in un certo senso sconsigliato da alcuni, diffidenti rispetto al mondo accademico. Il colpo di grazia me lo diede un mio vicino di casa col quale mi fermavo a chiacchierare nella sua cantina al ritorno o alla partenza di ogni nuovo viaggio. Lo chiameremo Bachisio per questioni di privacy.  “Bachisio”, gli dissi, “vado a fare i provini per studiare recitazione!”. Lui mi guardò con un mezzo sorriso e mi disse: “Bai, bai, no creu chi nc’as a arrannèsci, ca su sardu no est bonu a arresai (Vai vai, prova, ma non credo ci riuscirai: un sardo non sa recitare).” Rimasi sbalordito “E poita?” (E perché)?” gli chiesi. “Poita?” Fece lui. “Poita is ogus de su sardu fabas no ndi narant (Perché i suoi occhi non mentono mai).” A parte la solennità oracolare della sua risposta queste parole mi son tornate in mente in questi giorni e forse a sua insaputa oggi per me sintetizzano molte scelte. Pensatela al contrario: utilizzare tutta la nostra arte a servizio di quell’autenticità a cui forse accennava Bachisio. Anche nella ricerca più sfrenata non confondere mai gli strumenti con gli obiettivi, salvaguardare la comunicazione con un pubblico poco numeroso, specchio di quella grande urna vuota che rappresenta oggi la democrazia. Il “consiglio” di Bachisio mi ha fatto pensare insomma che su queste cose io voglio continuare a scegliere di essere un attore che non sa mentire.

Mario Russo

Facendo un tuffo nella mia giovinezza, mi rendo conto che le scelte prese non sono state poi così tante. Spesso qualcun altro ha scelto per me: mia madre, per esempio, che mi ha spinto verso la musica e il teatro. In questo mestiere spesso è qualcun altro a scegliere per noi, a “sceglierci”. Accettare un progetto può essere facile, soprattutto quando è l’unica cosa che hai tra le mani, quando devi riempire il vuoto – non solo creativo, ma anche economico – e fronteggiare le attese che sono parte integrante del nostro lavoro. Le scelte più difficili, invece, arrivano nella fase creativa, quando sei sul palco. È lì che ogni decisione diventa una responsabilità. Guardandomi indietro, mi considero una persona fortunata: spesso mi sono trovato coinvolto in progetti che ho amato; molte volte le scelte migliori arrivano quando qualcuno riesce a vedere in te un potenziale che tu ancora non riconosci. Se dovessi dare un consiglio al me stesso del passato – o del futuro–gli direi: circondati di persone che credono in te e continua a seguire il tuo istinto, senza paura. Fa tutto parte del gioco: anche le scelte sbagliate, quelle fatte consapevolmente, hanno la loro bellezza. 

Scenografia

Nella gestazione e nella costruzione dell’organismo spettacolo arrivate in fasi diverse rispetto agli interpreti che andranno ad abitare i mondi che avete realizzato. Quale è il momentum invisibile, la fase che preferite di questo processo? Provate a raccontare un aneddoto anche minuto che nessuno potrebbe immaginare.  

Guia Buzzi (Ho paura torero)

Il momento che preferisco nella creazione delle scene di uno spettacolo è la fase progettuale quando, dopo la lettura del testo, la mia mente inizia a viaggiare visualizzando possibili ambientazioni, un accavallarsi d’immagini, un susseguirsi vorticoso di idee, di suggestioni, colori, luoghi e forme che poi con il procedere della progettazione vengono razionalizzate, organizzate e compresse. L’altro momento che trovo sempre emozionante e terrifico è il montaggio, vedere la tua creatura concretizzarsi, mi piacerà? piacerà al regista? Funzionerà, sarà in sintonia con il lavoro dei miei colleghi? Come sarà vissuta dagli attori e dai tecnici? Molti spettacoli che ho fatto sono stati delle vere sfide per i tantissimi cambi scena anche se le mie scenografie vengono definite essenziali, minimaliste con pochi elementi. Peccato che quei pochi elementi sommati per ogni scena facciano molti elementi che, invisibili all’occhio del pubblico, vengono stipati in quinta rendendo quasi impossibili i movimenti e i passaggi di attori, macchinisti, attrezzisti e sarte. Visto da fuori può sembrare tutto fluido ma in quinta è il delirio. Quella fluidità e semplicità apparente sono il frutto di lunghe giornate passate con il regista a giocare con il modellino per trovare la quadra degli incastri tra cambi scena, cambi costume, ingressi di attori e musiche che unite alle prove tecniche creano la magia del teatro.

Luigi Noah De Angelis (Trilogia della città di K.)

La fase che amo di più durante l’ideazione dello spazio scenico per uno spettacolo è l’epifania di un’immagine fondativa a cui appellarsi continuamente. Nel caso della Trilogia della città di K. si è trattato dell’allestimento del Museo d’arte della città di San Paolo in Brasile ad opera dell’architetta Lina Bo Bardi: una sala espositiva dove i quadri non sono presentati secondo la gerarchia classica del canone occidentale, ma sono disposti tutti uno vicino o dietro all’altro, e sembrano volare perché sono appesi a dei vetri trasparenti, creando così una selva di immagini in cui il visitatore si avvicina alle opere secondo un’attrazione istintiva e emozionale. Questa immagine-seme ha guidato costantemente la progettazione e la mia idea registica della Trilogia della città di K. 

Un’altro motore, parallelo a questo, l’ho mutuato dall’esperienza del rito della chiesa ortodossa, dove bisogna avvicinarsi all’immagine per poterci empatizzare o esserne mossi; le immagini bisogna toccarle, baciarle… Quindi un’idea anti-prospettica, in cui lo sguardo dello spettatore viene avvolto e indotto a scegliere, a fare un suo percorso immaginale. 

Altra fase importantissima della progettazione dell’allestimento della Trilogia è stato il dialogo con Beppe Rossi, responsabile del reparto macchinisti del Piccolo Teatro di Milano il quale ha costruito uno strumento complesso, per far gestire i movimenti di scena di tutti gli schermi, di fatto icone emozionali, a cinque macchinisti dietro le quinte. E allo stesso modo tutte le fasi di progettazione del corpo e dello sguardo della scultura di Mathias, disegnata e realizzata da Nicola Fagnani, che ha indicato la temperatura psichica del secondo atto della Trilogia.

Daniele Spanò (La Ferocia)

Nel mio caso, ovvero in quello della progettazione dello spazio, il momentum è sempre visibile.

Si tratta infatti di comunicare prima e realizzare poi, l’immagine che sia ha nella testa, nella pancia. Questa trasformazione avviene attraverso un percorso più o meno complesso di mediazione con gli altri linguaggi, il risultato finale è quindi meravigliosamente inaspettato!

Costumi

Nella gestazione e nella costruzione dell’organismo spettacolo arrivate in fasi diverse rispetto agli interpreti che andranno ad abitare i mondi che avete realizzato. Quale è il momentum invisibile, la fase che preferite di questo processo? Provate a raccontare un aneddoto anche minuto che nessuno potrebbe immaginare.  

Aurora Damanti  (Progetto Čechov)

Il momentum invisibile del processo creativo che più preferisco è la fase di progettazione. La mente comincia ad essere popolata – giorno e notte – da personaggi che piano piano iniziano a presentarsi tramite il disegno sino a prendere poi vita grazie agli attori. La matita diventa così un mezzo non solo di creazione ma anche d’espressione della mia intimità. I miei costumi sono spesso influenzati da ricordi ed emozioni personali, ispirazioni artistiche o che provengono da paesi che ho visitato o semplicemente da persone incontrate banalmente su un treno. Tutto questo filtrato dalla psicologia del personaggio – di fondamentale importanza per la creazione di un costume – e dallo spazio ideato ed illuminato dai miei colleghi scenografi e light designers. Talvolta la “colonna sonora” in sottofondo è la musica scelta per lo spettacolo stesso. Un aneddoto simpatico che accompagna la fase di progettazione è lo studio di forme, prototipi e tagli maschili su mio marito, ormai diventato una sorta di manichino vivente. Ho così una collezione di fotografie, spesso inviate anche ai registi con cui collaboro, di Emanuele vestito da Garibaldi piuttosto che da Spiderman, con lustrini e paillettes oppure da pagliaccio. Ed anche se si presta a questo ‘gioco’ la sua espressione è sempre la medesima: ironicamente, molto seria. 

Guoda Jaruševičiūte, Dewey Dell (Le Sacre du Printemps)

Nei nostri lavori i movimenti si creano insieme al disegno dei costumi e spesso non ricordiamo più cosa sia nato prima. Ne ‘Le Sacre du Printemps’ i costumi del primo atto sono stati disegnati da noi Dewey Dell in strettissima relazione con il movimento, nel secondo atto sono stati affidati alla costumista Guoda Jaruseviciute che lavora con la compagnia da diversi anni. La realizzazione dei costumi è stata svolta dopo un lungo momento di studio delle stoffe, della loro grammatura e della loro reazione al movimento. L’intenzione principale del lavoro infatti era quella di restituire visivamente un’idea organica di elementi naturali diversi tra loro: la corazza di un insetto, la fragilità dei petali di un fiore, i filamenti di un fungo, ma anche la struttura rigida di una foglia.

Lavoriamo spesso con i prototipi dei costumi sin dall’inizio delle prove e man mano che lo spettacolo si definisce assistiamo anche al perfezionamento delle forme, dei colori e dei materiali dei costumi. Quello è forse uno dei momenti che preferiamo di più, vedere finalmente il costume finito dopo un così lungo periodo di aggiustamento. Un aspetto divertente nella creazione dei costumi de “Le Sacre du Printemps” è stato il ruolo fondamentale che ha giocato il tempo molto ridotto che avevamo a disposizione tra un cambio e l’altro dei costumi. La musica di Igor Stravinsky infatti non ha tregua e spesso abbiamo a disposizione solo manciate di secondi per cambiarci completamente. Per questa ragione dietro alle quinte sono posizionati metri e metri di sete, di colore diverso a seconda delle varie scene in cui vengono utilizzate, che sono disposte in un modo precisissimo proprio per permettere di indossarle in pochissimi istanti. La seta, quando in metratura abbondante, può diventare un vero labirinto!

Ci teniamo a ringraziare la nostra danzatrice Francesca Siracusa e i nostri danzatori Alberto Galluzzi e Denis Guerrini che hanno accettato la sfida di lavorare con costumi che trasformassero la loro abituale biomeccanica. Ringraziamo anche Carmen Castellucci per aver realizzato con noi i costumi.                           

Disegno luci

Nella gestazione e nella costruzione dell’organismo spettacolo arrivate in fasi diverse rispetto agli interpreti che andranno ad abitare i mondi che avete realizzato. Quale è il momentum invisibile, la fase che preferite di questo processo? Provate a raccontare un aneddoto anche minuto che nessuno potrebbe immaginare.  

Luigi Noah De Angelis (Trilogia della città di K.)

Per me le funzioni di regia, disegno delle scene e delle luci sono inseparabili, sono un intrico fondamentale da cui parte tutto il mio processo creativo e tutti e tre questi aspetti sono sempre in fortissima connessione con  l’architettura del suono. Di fatto mi considero più che altro un architetto e lavoro sempre intrecciando tutti questi aspetti. Riguardo al disegno delle luci, la fase che mi interessa di più in assoluto è proprio quel momento intimo, segreto, in cui si va a creare la partitura emozionale del flusso della luce. Questa fase ha a che fare con l’istinto e con la libera espressione dell’inconscio. Da una parte c’è il disegno architettonico che la luce genera, perché per me la luce è sempre scultura dello spazio, mai illustrazione, creazione di vuoti e di pieni, indicazione di confini, ma allo stesso tempo attiva l’attenzione, perché veicola lo sguardo, come se fosse una telecamera che si avvicina a una figura. Nel mio modo di lavorare la luce svolge una funzione psicagogica molto forte, spesso dettata dalla scelta del colore e dei contrasti cromatici. Adoro il momento in cui posso lasciar fluire questo canale liberamente!

Giulia Pastore (La Ferocia)

Il mio lavoro vive di molti momenti sorprendenti, piccole epifanie, e pensando alle fasi che lo costruiscono – quando lavoro nella prosa – al principio tutto trova fondamento nel testo. Quando i Vicoquartomazzini mi hanno chiamata per ‘La Ferocia’ ho letto il romanzo e me ne sono innamorata, ma è stato quando ho letto l’adattamento di Linda Dalisi che ho cominciato nitidamente a vedere quello che poteva diventare, come quelle solitudini potessero essere tradotte in luce. La lettura comincia ad essere attraversata dalle immagini che nei giorni, attraverso la ricerca, diventano uno spazio da abitare, un mondo ancora invisibile ma che già si fa concreto nella mia mente. Queste suggestioni incontrano poi quelle del regista(i) e degli altri collaboratori e vivo sempre una piccola vertigine nel momento in cui la mia visione si fonde alla loro, per diventare qualcos’altro, un immaginario comune che si trasforma fino a quando si arriva in prova, sul palco, dove questo organismo comincia a prendere forma e rendersi consistente. Forse questo è il momento più potente, il tentativo di portare nel mondo reale, tutti insieme, quello che abbiamo pensato da soli. Quando l’invisibile, diventando visibile, diventa altro da noi. In questo passaggio diventa fondamentale il sostegno della produzione, perchè lo scarto tra il pensiero di tutti e la realtà si faccia il più sottile possibile e nel caso de ‘La Ferocia’, questa sinergia tra tutte le persone coinvolte ha funzionato nel migliore dei modi. 

Raffaella Vitiello (Il grande vuoto)

Intervenire all’interno di un processo creativo le cui parti sono già tracciate non è semplicemente un’operazione di integrazione, ma diventa una condivisione della scrittura, perché, solo grazie a questo scambio di relazione tra le varie professionalità che collaborano attorno alla scena, la luce si fa strumento di identificazione e comprensione emotiva, ingrandisce e rimpicciolisce, mette al centro e mette ai margini o rende liberi di scegliere cosa guardare e come viverlo nello spazio scenico.
Non è facile riferirsi ad un aneddoto in particolare, ma penso a quando il tavolo del salone de Il Grande Vuoto di Fabiana Iacozzilli, dove fino a poco prima si è svolto un pranzo di famiglia e che, nella crudezza di una lampada a led che ne sagoma i contorni, si trasforma nel luogo dei ricordi evaporati della mente di Giusi o alla scena finale, quando un’azione semplice – il posizionamento a terra di una luce da parte di Piero, uno dei protagonisti – regala maestosità alla figura di Giusi proiettando l’ombra del Re Lear.  

Progetto sonoro o musiche originali

Nella gestazione e nella costruzione dell’organismo spettacolo arrivate in fasi diverse rispetto agli interpreti che andranno ad abitare i mondi che avete realizzato. Quale è il momentum invisibile, la fase che preferite di questo processo? Provate a raccontare un aneddoto anche minuto che nessuno potrebbe immaginare.  

Mirto Baliani e Emanuele Wiltsch Barberio (Trilogia della città di K.)

Abbiamo entrambi lavorato con Fanny e Alexander per molti progetti, ma questa è stata la prima volta che ci siamo trovati a lavorare a quattro mani. Come spesso accade in fase di ideazione, viene creato un alfabeto musicale e sonoro insieme a Luigi De Angelis, demiurgo di tutte le forme immateriali. In questo caso ci ritrovammo a Ravenna, nel grande spazio dell’Almagià, con un piano Disklavier e un punto di partenza: evocare i colori di Bartok, per naturale connessione con il contesto storico, con particolare riferimento a “Mikrokosmos”, serie di esercizi elementari per il pianoforte. Queste forme cicliche e la loro chiara matrice “formativa”, sono diventate poi il centro di tutto il primo capitolo, accompagnando l’educazione alla sofferenza a cui si sottopongono i due gemelli con la terribile nonna.

Da tanti anni con i Fanny ci si affida con fiducia e un segno della croce ad una fase di produzione densissima e obnubilante, in cui tutti i livelli si sovrappongono e si possono mettere in relazione contemporaneamente. Lo stato liquido permane fino a poche ore dal debutto. Un crinale rischioso che però offre in cambio un grande spazio dedicato a relazioni e intuizioni, che vengono cesellate alla perfezione come in un enorme orologio a cucù. In questo grande vortice, delle volte accadono dei riflessi nella vita reale, piccoli incantesimi urbani che da un lato ci divertono e dall’altro ci rassicurano. Come accadde il primo o il secondo giorno di produzione in cui ci ritrovammo al Piccolo, Lorenzo Gleijeses arrivò con i babà per festeggiare il suo compleanno e quando lo annunciò, Alessandro Berti reagì sbigottito: “Ma oggi è anche il mio compleanno!” . I due attori che interpretano i gemelli, incredibile ma vero, compiono gli anni nella vita reale lo stesso giorno! Con un brivido alla schiena ci augurammo che fosse un segnale propiziatorio e apotropaico. Un chiaro indicatore che era iniziato un cortocircuito epifanico, quello che ci ha portato fino a qui, a ritirare questo premio con orgoglio e riconoscenza verso l’incredibile squadra di quintessenze umane ideata da Fanny & Alexander e Federica Fracassi. 

Vera Di Lecce (Stuporosa)

Sono stata coinvolta nella costruzione dell’organismo ‘Stuporosa’ sin dai primi momenti, come musicista e performer, come guida del rituale attraverso voce, corpo, chitarra e strumenti elettronici. Ho composto un vocabolario del pianto fatto di melodie, loops, ritmiche e lamenti da intrecciare ai corpi danzanti, alle emozioni e alle cadute, allo sconforto e alla rinascita, percorrendo con le danzatrici il cammino del dolore. Tutto ciò è avvenuto contemporaneamente alla creazione delle coreografie, processo che ho amato immensamente. Altro momento per me importantissimo è stato lavorare con la voce insieme alle danzatrici per l’arrangiamento del coro finale, che ci vede cantare insieme. L’incontro con Francesco Marilungo può definirsi magico, quasi predestinato, un fluire di sincronicità, di creazione sognante. Un esempio fu quando era alla ricerca di una ninna nanna tradizionale, gliene proposi subito una in Griko, quella che mi veniva cantata da piccola, in Salento, per farmi addormentare.

Nuovo testo italiano/scrittura drammaturgica (messi in scena da compagnie o artisti italiani)

Cos’è, per voi, ‘l’indicibile’ della drammaturgia italiana? Quanto a linguaggio, struttura, contenuti e humus del paese che un testo racconta. Come provate ad afferrarlo questo indicibile?

Bidibibodibiboo (di Francesco Alberici)

Forse che quel che oggi la drammaturgia europea – inquadrandola come parte del discorso culturale pubblico e provando a saltare gli steccati dei singoli paesi – non riesce a raccontare è la ‘prospettiva della fine’. Ovunque soffiano minacciosi venti di guerra, l’Europa è in crisi, tra crescenti nazionalismi e rigurgiti illiberali, il collasso climatico è ormai una violenta evidenza, ogni giorno che passa le nostre vite reali sprofondano un pezzetto di più nell’abisso del virtuale. Di tutto questo veniamo costantemente informati, lo sappiamo bene. Eppure non ne siamo spaventati come dovremmo. Lo sappiamo razionalmente, ma non riusciamo ad assumerlo su di noi, a farcene carico. Non riusciamo a farne un racconto. Ne abbiamo una consapevolezza a distanza: sappiamo quel che sta accadendo, ma nel quadro di tale catastrofe non riusciamo a includere noi stessi. Questo ‘sentimento’ della fine resta inafferrabile. Forse proprio se riuscissimo a esprimerlo e a vivere di conseguenza il grande spavento che continuiamo a rimuovere, troveremmo poi la forza di reagire: non dico per salvarsi, ma almeno per un ultimo inutile tentativo.

La morte ovvero il pranzo della domenica (di Mariano Dammacco) 

Morte, futuro, verità.

Le Volpi (di Lucia Franchi e Luca Ricci)

‘I grandi guadagni fanno scomparire i grandi principi, e i piccoli guadagni fanno scomparire i piccoli fanatismi’ scriveva Leonardo Sciascia in ‘Todo modo’. Il nostro testo – ‘Le Volpi’ – racconta proprio questo confine sottile per cui è legittimo concedersi un piccolo tornaconto per sé o per i propri affiliati, dopo essersi tanto impegnati nella gestione di qualcosa che serve alla collettività. Forse sta proprio nella gestione familistica dei rapporti di forza e di potere l’indicibile della società italiana, intorno a cui ci interroghiamo in tanti, scrivendone per la scena, per la letteratura, per il cinema. È un argomento sul quale pressoché nessun italiano può chiamarsi fuori, nemmeno noi che scriviamo questo breve testo, né l’intero mondo del teatro italiano, perché lottiamo tutti e ogni giorno tra interessi naturali, appetiti più o meno legittimi, accordi, scambi di favori, concessioni, incarichi di servizio e vantaggi da chiedere o concedere. Afferrare questo magma di umane relazioni e tutte le ambizioni (e le ossessioni) che porta con sé è lo scopo della nostra scrittura teatrale. Il nostro interesse di drammaturghi italiani si accende ogni volta che un personaggio concede a se stesso lo spazio di una impercettibile eccezione.

Nuovo testo straniero/scrittura drammaturgica (messi in scena da compagnie o artisti italiani)

Cos’è, per voi, ‘l’indicibile’ della drammaturgia franco-canadese? Quanto a linguaggio, struttura, contenuti e humus del paese che un testo racconta. Come provate ad afferrarlo questo indicibile?

Come gli uccelli (di Wajdi Mouawad)

(risposta da Il Mulino di Amleto / Marco Lorenzi e Barbara Mazzi)  

Quando, insieme ad Isabella e Sergio, abbiamo comunicato a Wajdi la notizia del Premio abbiamo inteso che la cronaca degli ultimi mesi ha così radicalmente mutato la sua fiducia nella possibilità di comprensione e consolazione per il genere umano da averlo gettato nello sconforto di non poter più credere a ‘Come gli uccelli’.

Oggi, dunque, l’indicibile di Mouawad è ‘Come gli uccelli’.

E cosa vuol dire questo per un regista che lo mette in scena? Continuare a credere in quello che scriveva: ‘il teatro è andare verso il proprio nemico a costo di andare contro la propria tribù’.

Mouawad è libanese, ma poi è candaese e francese, lui non è di un paese. Lui ci invita a problematizzare il tema dell’identità inteso come eredità dell’odio, eredità dei confini geografici e culturali che ci predeterminano secondo uno schema che ricorda quello della tragedia greca e dalla quale sembra impossibile uscire. Ci invita ad andare oltre tutto questo e a credere (con un atto di sovrumana fiducia che oggi sembra quasi impossibile) all’immagine di quegli uccelli che nel suo testo ‘vanno e vengono da ogni lato di questo muro’.

Ecco dove forse sta l’indicibile di Wajdi: in quell’andare oltre ogni particolarismo del me, dell’io e andare verso il Noi di tutti gli uccelli. Sembra quasi una presa di posizione inattuale e antistorica in un mondo pieno di individualità sole al comando, sempre più deliranti. L’indicibile è la collettività, è l’essere insieme, e per questo da sempre affronto e come Il Mulino Di Amleto affrontiamo questo indicibile con la scelta di una compagnia, creando una comunità artistica con cui lottare il solipsismo sterile e autoreferenziale, abbattendo i muri enormi e folli come il gigantesco muro che tutto schiaccia nello spettacolo che abbiamo creato. Valorizzando un linguaggio classico e tragico nella forma, ma profondamente contemporaneo nel contenuto; con una struttura che, nell’adattamento fatto, abbiamo ulteriormente intricato e spostato nei piani temporali e spaziali; che abbiamo arricchito di un multilinguismo, creando una babele linguistica per riconsegnare la complessità di questo mondo torturato; con un testo che abbiamo scelto di portare in scena nella sua rischiosa lunghezza originale perché il tempo è protagonista in ‘Come gli uccelli’ e che da regista ho voluto spogliare del suo naturalismo di facciata e affrontarlo nel suo minimalismo archetipico, nella gioiosa e utopica fiducia che l’atto teatrale sia sempre ‘contro’.  

Spettacolo straniero presentato in Italia

Il tuo è un lavoro che mette in contrasto mondi e culture. Che sui conflitti culturali, dice qualcosa d’importante. Cosa significa ricevere questo premio proprio in Italia? Vieni dalla Polonia e la Russia è a 5 minuti. Cosa significa riflettere sulle distanze e le prossimità tra confini e culture?

Rohtko (di Łukasz Twarkowski)

1) I don’t think that these are similar topics because of course one of the most important themes of the performance is the difference of cultures and the difference of understanding, different paradigms which basically of course represent that we cannot translate some of the words even though we have the literally translation, they mean basically completely different things, but it stills in the framework of this work we’re rather concentrating on broadening the perspective on broadening the risons. On building up the understanding and opening our minds for different possible options of seeing the world of understanding the world and changing as well our european centralisimo – concentrate (piuttosto) on european way of understanding way of seeing things what is happening with the war and the aggression of Ukraine is completely different topic, in general all the wars are usually the result of lack of communications. In the case of this project which was born literally few weeks after the full scale aggression of Russian Ukraine, it was pretty hard for us to finish  it  because how can you can work while innocent civilians are bombed and killed just behind the border. That’s why for few weeks before the premiere I had to completely cut off from the news because otherwise I would not finish this process. And in the end this small gesture of solidarity which is the russian flack and the words that we address stay with us and gonna stay with us until the very last moment when the aggressors and Putin gonna be be defeated.

2) I don’t actually know very well what foreign means because as I lived pretty much abroad and till know I’m spending most of the time in different cities of Europe and the same the production we could say is foreign from me because being Polish, we made with our  international crew in Latvia (Lettonia) with an international ensemble as well so I would say that this production is even more international than all the others productions that we did until now. One thing which I can say is definitely that the moments that we spent in Milano playing in Piccolo Teatro it were one of the most beautiful moments in the life  of this show this extremely strong bond that we felt was just created between audience and what was happening on the stage and during the meetings and after the show seeing all the people it was one of the most beautiful moments to see how strong the impact can be and how deep work can be done through this magical medium called theatre.

Premio alla carriera

Dato che anche il teatro è ‘un canto alla durata’, come l’amore, che cosa ti ha impedito di smettere con il teatro?

​​Carla Tatò

‘Tempo di smetterla…’  dice la Voce di Dondolo. ‘Ancòra’, chiede la Donna. Così inizia Dondolo di Beckett.

Mi guardo indietro… Ancòra… Una passione attoriale bruciante, selvaggia, frenetica e incontenibile che mi ha guidata e ha fatto esplodere la mia autorialità in scena. Nulla sarebbe stato possibile se non avessi incontrato artisti visionari. Se non avessi condiviso ogni passo, ogni scoperta, ogni respiro con tante/i compagne/i.

E il mio primo pensiero va sempre e sempre a Carlo Quartucci. Ancòra… un lungo viaggio dentro il teatro, per il teatro; dentro spazi sempre diversi, ‘altri’ (dalle periferie di Camion, al mare della Sicilia), dentro le parole (da quelle di Kleist a quelle di Beckett e Marlowe), fra le persone, nelle relazioni, in uno SCOPRIRE incessante, in un amore infinito per l’IMPREVISTO.

Ancòra… ho caricato sulle spalle del mio essere attore-narratore i dolori, le ferite, le gioie del mondo, nello spazio della scena, nell’utopia di una memoria epica per il futuro. Memoria, epica, futuro.

Farla finita? No. “Tempo di smetterla…” … ancòra e ancòra… in una perseveranza selvaggia. In amicizia. In allegria. Dentro il teatro. Ancòra.

 

Premi speciali

Archivio Zeta

Il teatro è l’arte del qui e ora, ha bisogno del corpo e della voce dell’artista presente, in grado di trasformare i luoghi e mostrarne un punto di vista prima sconosciuto, attraverso un’esperienza sinestetica, che proietta gli esseri umani nel mondo delle relazioni, come direbbe Hannah Arendt. In un frammento di spazio/tempo chiediamo ad altre persone di abbandonarsi al racconto, le invitiamo ad essere parte di un’opera che faremo insieme: è un rapporto di fiducia, interdipendenza e intima reciprocità. Dunque per noi il confine non c’è, qualsiasi luogo può diventare palcoscenico. Palcoscenico sì, ma non cornice. E qui sta il confine, la distinzione tra due mondi che sono universi di pensiero. Ci aiuta Cristina Campo che ha scritto ‘Due mondi – e io vengo dall’altro’. Ecco, noi veniamo dall’altro. L’alterità è alla base della nostra riflessione. La diversità e la marginalità ci hanno portato ad attraversare i luoghi teatralmente non giurisdizionali: cimiteri, ospedali, fabbriche, ville abbandonate, poligoni di tiro, luoghi di stragi, lager, archivi, tutte ‘scenografie di senso’. Viviamo da più di vent’anni sulla soglia dell’altro mondo – al cimitero militare germanico del passo della Futa – in ascolto del coro silenzioso di oltre 30.000 nemici, caduti per una causa sbagliata. Ci siamo legati alla montagna per inventare un teatro tra le lapidi come nelle visioni di Genet, un teatro di Marte come quello evocato da Kraus: un confino senza confini, un rito culturale indipendente. E poi a ben vedere il cimitero della Futa, se lo guardi dall’alto, con la sua enorme spirale di pietra che avvolge la montagna, sembra proprio la cornoventraglia, la giduglia, la pancia di Padre Ubu, come se il suo corpo gigantesco si fosse adagiato tra le montagne per digerire tutto il dolore e la violenza del mondo.

BAT_Bottega Amletica Testoriana. Esercizi per gli attori // Esercizi con il pubblico

 BAT_Bottega Amletica Testoriana è un progetto che si occupa di pedagogia, consegnando un autore ad una nuova generazione. Il progetto è nato per rimettere lo studio al centro della formazione dell’arte della recitazione. Studiare è la linea rossa dalla quale tutto dovrebbe prendere vita. Centrale nel progetto è stata anche la scelta di riconoscere allo studio la sua natura di lavoro, avendo deciso di remunerare la partecipazione degli interpreti selezionati.

Il progetto ha scelto sin dall’inizio di non pervenire a una spettacolarizzazione ma a puri momenti di condivisione degli studi in corso. Le due sedi principali in cui si è svolto –  due spazi emblematici come il Piccolo Teatro Grassi e il Teatro Rossini di Pesaro – sono stati utilizzati nella loro interezza, a ‘luci accese’, proprio perché potessero farsi luogo di uno ‘studio in comunità’ – la comunione tra attori/trici e spettatori/trici – piuttosto che luogo di sola visione. La riformulazione del rapporto – divenuto ‘uno a uno’, lungo tutto un anno – tra il singolo attore/trice e il proprio spettatore/trice,  che il progetto ha sperimentato con esiti di inedita vitalità, è stato un altro elemento che ha superato i confini delle abitudini teatrali. 

Compagnia Garbuggino Ventriglia

Per noi la pratica di un attore non comincia e non finisce su un palcoscenico o in sala prove.

Sostenere nella vita i contenuti che abbiamo scelto di portare avanti.

Ogni volta che, anche nel più minuto degli atti, restiamo fedeli alla nostra vocazione, ai motivi profondi per i quali siamo su un palco in ogni momento preciso, ecco allora esondiamo. Una disarmata consapevolezza che è di per sé una pratica, una disciplina, un metodo: richiede lavoro e soprattutto chiede di non aver paura. Ogni uomo è chiamato ad essere santo.

Il teatro non è per noi qualcosa di fine a se stesso: quando rischiamo anche la stessa possibilità di essere su un palcoscenico allora esondiamo.

Davide Iodice

 Mi muovo ai margini, non solo per una vocazione identitaria, ma per un cambio di prospettiva che sento necessario; perché è da lì che la realtà mi appare più a fuoco. E allora inseguo la vita dentro periferie labirintiche, nei campi rom, negli ospedali, nelle carceri, nei manicomi; in tutti quei luoghi e presso quelle comunità dove più morde e più avvelena. È qui che sento che l’arte può riappropriarsi del suo senso primigenio, essere ancora un antidoto, e smettendo di essere scimmia del narcisismo individuale o dell’intrattenimento istituzionale, ridiventare strumento collettivo di comprensione dell’umano, di ricomposizione di quella profonda frattura sociale e culturale tra il noi e il loro: ‘cura’ per quel dolore dell’essere al mondo, che tutti segna e tutti rende uguali. Provo a calarmi nella realtà ‘come un indigeno’ più che come un cronista o un collezionista, cercando di lasciarmi permeare da quella intensità, per poi ritornare al teatro nel tentativo di informarne il linguaggio in modo vitale, autentico. Altre volte il ritorno non è possibile, e allora tento di costruire delle comunità significanti, espressive, altrove, in altri luoghi. Declino il termine dramatis persona nel suo senso più letterale, aprendo il dramma all’irruzione dei vissuti di persone comuni, di ‘specialisti dell’esistenza’.

Lenz Fondazione

La ricerca drammaturgica e imagoturgica di Lenz necessita di tempi lunghi di approfondimento e opera di trasformazione, trasfigurazione, pensiero. È da sempre la nostra rischiosissima pratica di lavoro, così come la stanzialità, l’operare spesso site-specific in altri luoghi monumentali, ambientali, architettonici contemporanei per poi ritornare nella nostra “Fábrica del Universo”, come direbbe Calderón de la Barca, a Lenz Teatro.

Cerchiamo dove non sia già stato edificato un pensiero, un modo, una forma. Proviamo a creare mondi, per dare vita a nuove geosofie, a campi del pensiero artistico non impagliati e impigliati nelle retoriche del momento, mantenendo intatti i fondamentali del metodo di ricerca e sperimentazione pluriennale. C’è stato nel tempo un arricchimento derivato dall’incontro con persone dotate di ipersensibilità nell’agire artistico, oltre le normali capacità tecniche attorali, in continuo agone con le forme tradizionali della rappresentazione, alla ricerca del vero senso del teatro contemporaneo.

La complessità della vita, e perciò del teatro che vive l’arte, non può fingere armonia, luce, pacificazione. Questo non significa ferocia, repulsione e crisi per lo spettatore. Nei riscontri avuti in tanti anni di relazione dialettica con le persone che guardano e vedono l’opera in atto sentiamo che si è costruito un legame intellettuale e umano autentico e prezioso. Chi continua a seguire la nostra ricerca è in cammino con noi, si pone le nostre stesse domande e cerca nella condivisione dell’atto artistico di dare forma all’inquietudine, di dare corpo estetico al turbamento, ma anche di rispecchiarsi emotivamente, di avere re-visioni del proprio mondo sentimentale.

Marcello Sambati

​​Prima della risposta, mi preme una domanda: quando e perché le nostre pratiche di immaginazione, di desiderio, di relazioni che ci costituiscono, ci hanno gettati su un palcoscenico? Io ho attraversato e vissuto la stagione, per certi aspetti mitica, della Scrittura scenica, anni ’60-’80, quando il teatro era un luogo dove inscenare se stessi come corpi in piena vocazione, luogo ideale per scriversi un destino. Teatro come scrittura di sé e come destino. Mettere in scena la scrittura, letteralmente. Ma quale scrittura, quale parola mettere in scena in questo luogo di metamorfosi, di esitazioni e patimenti, che impasta, modella e ricompone il reale, alla ricerca di un senso che sempre sfugge?

Ed è a quel punto che inizia, tra pensiero e cuore, la linea rossa. Linea incandescente, metafora di frontiera, che non esclude la possibilità dello smarrimento, e il cui oltrepassamento è irreversibile. La scrittura poetica, dunque. Promessa di un’illuminazione per il proprio destino, orientata ad esplorare mondo e terra. La scrittura come registro e restituzione, pratica di un accadere della corporeità poetica del teatro dentro la comunità, altrimenti destinata all’oblio.

“Retroscena” (Michele Sciancalepore)

Mandare in onda una rappresentazione teatrale in tv è sempre stata un’operazione discutibile, ardimentosa e per lo più fallimentare. ‘Retroscena’ volutamente non lo ha mai fatto. È nato con un’altra prerogativa, quella di tentare, attraverso la documentazione dei processi creativi e gli incontri con l’animo dei teatranti, di comunicare, di svelare, il mistero della creazione artistica che si intreccia con quello della creazione divina. Un’impresa sicuramente impossibile ma, come ammonì la poetessa Margherita Guidacci, non bisogna ‘obbedire a chi ti dice di rinunziare all’impossibile’. Durante questi primi 17 anni siamo stati disobbedienti e abbiamo inseguito ‘il vento con un secchio’ animati dall’amore per il teatro e il mezzo televisivo, dalla passione per le riprese, per il montaggio e soprattutto mossi dalla curiosità e dalla capacità di ascolto. E così alla fine qualche volta è capitato il miracolo di riuscire a catturare il vento con un secchio e, parafrasando Orson Welles, di resistere ‘come un divino anacronismo’.

Stivalaccio Teatro

Prima di poter esondare dal palcoscenico abbiamo cominciato inondandolo! Ci spieghiamo meglio: per molto tempo il palcoscenico non è stato il luogo principale del nostro fare teatro. Nella nostra storia decennale la prima ad accoglierci è stata Lei, la strada. E quando non era la strada erano i cortili, le piazze, quando andava bene i piccoli borghi di campagna. Fatica, sudore ma che incontri e quanta energia! Poi, piano piano, quella sottile linea rossa abbiamo cominciato ad oltrepassarla, a salirci su quei benedetti palcoscenici, ma cercando di rimanere consapevoli che quella linea doveva rimanere una linea, e mai uno steccato. Lo scambio continuo, fisico, viscerale, tra palco e platea, tra il ‘noi’ qui sopra e il ‘loro’ là sotto, rimane un faro del nostro navigare. La commedia dell’arte, con le sue maschere e archetipi, si presta naturalmente a questa ‘esondazione’, contaminando il quotidiano con il suo linguaggio immediato, popolare e profondamente radicato nella cultura collettiva. È qui che il teatro si libera dai limiti fisici e temporali, trovando nuove vie per intrufolarsi nel tessuto della comunità. Una comunità che speriamo ritrovi nel riso puro, nella Commedia, ingiustamente Cenerentola dei nostri palcoscenici, uno sguardo critico sul mondo, un desiderio di poesia e perché no, un briciolo di follia.

Tovaglia a quadri

La nostra ‘sottile linea rossa’ varia per spessore e visibilità. A volte scompare nella ricerca sul campo, fra fonti incerte e testimonianze oculari sempre più rare. Memorie rabdomanti, come un fenomeno carsico che riemerge su una scena anomala fatta di tovaglie apparecchiate e cibi dalla qualità e dalla provenienza certa. Mura antiche, porte e finestre di case, quarte pareti interne che si spogliano davanti ai commensali per mostrare storie intime e particolari, orientate sempre all’universale: dall’emigrazione alla svendita dell’acqua pubblica, dalle tracce riemerse di un campo di concentramento alle vicende di una prostituta che ha rivoluzionato un intero territorio, fino alle recenti ricerche sulle storie di vita e i diari dai manicomi, con un inedito racconto dell’amicizia fra Pasolini e Basaglia, frequentatore di Anghiari e delle sue osterie. Tutte queste storie vengono, da trent’anni, condivise a tavola, il teatro sopra e in mezzo a una Tovaglia a Quadri, visto e mangiato, bevuto e digerito in tempi che somigliano molto a una vita necessaria.

Zona K

La nostra linea – come tutte le sottili linee rosse – si muove tra l’audacia di oltrepassarla e il coraggio di non mollare la posizione, disegnando quasi un confine tra il lecito e l’illecito. Non sappiamo dove inizi nè quali contorni abbia, ma in questa continua oscillazione il nostro sguardo ritorna sempre al presente, un presente invadente o sottile, politico, internazionale, personale e collettivo. 

Da lì siamo partite dieci anni fa quando abbiamo iniziato a guardare oltre i confini degli spazi, delle discipline e definizioni. Siamo uscite dal teatro, invadendo strade, case, parchi, piazze, attraversando campi e foreste, testando nuovi dispositivi drammaturgici e multimediali. Abbiamo cercato la partecipazione di cittadine, cittadini, spettatrici e spettatori – avvocat*, giudic*, lavorat*, richiedenti asilo, bambin*, student*, parkourist* – e l’appoggio di molteplici compagne e compagni di viaggio. 

A dire il vero, forse, la sottile linea rossa per noi non c’è: il teatro è ovunque ci sia un dispositivo artistico che permetta a una comunità di corpi, presenti nel qui e ora, di partecipare ad un’esperienza poetica ed estetica che reinterpreti e reinventi il reale