Il labirinto e la chiave. Un ricordo di Franco Quadri / Gianandrea Piccioli
Il labirinto e la chiave. Un ricordo di Franco Quadri
Gianandrea Piccioli / ateatro, 28 marzo 2011
Una volta, dopo una serata di Premi Ubu, dissi a Franco che mi sembrava Prospero alla guida della barca dei teatranti, sempre sul punto di naufragare e sempre a cavallo dell’onda. Ora quel grande mago non c’è più e ci sentiamo tutti smarriti. Ci viene da piangere, ma sappiamo che lui non lo vorrebbe e ci guarderebbe con il suo sguardo ironico, insieme irridente e affettuoso. E allora l’unico conforto è di sentirlo vicino comunque, presenza lieve e sicura, come dicono sia quella degli angeli, se esistessero.
So che a chi l’ha conosciuto può apparire perlomeno peregrino accostare Franco a un angelo, eppure in più di cinquant’anni di amicizia l’ho sempre sentito come un compagno e una guida, discreto e sempre affidabile. E’ stato uno degli uomini più generosi, fino alla dissipazione di sé, che io abbia mai incontrato: tutti quelli che l’hanno accostato, anche quelli con cui ha litigato (ed era facile litigare con lui), gli debbono essere grati.
Col tempo, quando si sarà cicatrizzata la ferita di questi ultimi terribili mesi, si dovranno redigere bilanci e collocarlo, come è giusto storicamente, tra i pochi intellettuali veramente importanti dell’Italia del secondo Novecento, e non solo nello specifico ambito del teatro, dove peraltro è stato assolutamente decisivo nella scoperta e nella crescita di innumeri realtà italiane e straniere: molte di queste gli devono tutto. Ma anche come organizzatore culturale, editore, maestro artigiano: per restare nel campo editoriale, quanti redattori sono usciti dalla sua scuola, rigorosissima, precisa fino alla meticolosità? E quanti critici hanno imparato da lui? E tutti da lui abbiamo appreso un nuovo modo di vedere lo spettacolo. Basta sfogliare i due volumi delle sue recensioni su “Panorama” usciti dal Formichiere, che inaugurarono un nuovo stile di “critica teatrale” (espressione che lui aborriva), o quelli, preziosissimi per i futuri storici del teatro, pubblicati nella serie viola di Einaudi. E prima ancora i numeri speciali di “Sipario”, che io studente collezionavo (e ancora posseggo e gelosamente custodisco): sul teatro yiddish, su Brodway e off Brodway, sul nuovo teatro americano degli anni Sessanta e via esplorando e informando. E, dopo, i quaderni delle tre biennali veneziane. E tanto altro ancora: è sufficiente scorrere il catalogo della sua amatissima Ubu, una delle migliori case editrici di teatro europee, con i grandi libri illustrati, le sceneggiature dei film amati, i saggi teorici, le decine di autori italiani e stranieri, a volte sconosciuti e scoperti dal fiuto infallibile di Franco. O quel capolavoro di annalistica dello spettacolo che è la serie del Patalogo: unica, necessaria e insostituibile. Anche perché il Patalogo non è mai stato solo un regesto intelligente e preciso dell’esistente, ma anche e soprattutto una sonda che sapeva anticipare (e a volte creare) il nuovo della scena mondiale.
Credo che il segreto di tutta la sua incredibile attività e ancor più della sua capacità di instaurare ed estendere relazioni a livello davvero e letteralmente planetario sia stata la disponibilità a mettersi sempre in gioco in prima persona, esistenzialmente, con tutto se stesso, come pochissimi hanno saputo fare in quest’epoca tremenda che ci è data da vivere. Forse Pasolini, che però aveva un qualcosa di profetico e di risentito affatto estraneo a Franco. In Franco prevalevano la condivisione e la testimonianza. C’era in lui un’ attitudine alla ricerca gratuita e disinteressata che lo accomunava ai monaci vaganti del nostro Medioevo o della tradizione orientale. O al saggio rabbi Tarfon, che insegnava: “Non sta a te compiere l’opera, ma non sei libero di sottrartene”. Lo testimonia un suo scritto in cui, eccezionalmente, schiude uno spiraglio quasi autobiografico:
“Lontani sono i tempi in cui un recensore al tavolino veniva pagato per attribuire giudizi di merito, promuovere o bocciare, anziché descrivere, tramandare, far conoscere o, al massimo, riconoscersi. Quando, già dentro la nuova era, scambiandosi di ruolo coi comici girovaghi o intersecandone le linee di movimento, è lo scrivente che si fa pellegrino, per andare a cercare gli spunti della sua cronaca tra questi nuovi barbari, piuttosto che fiutare l’elemento di sorpresa nel gran spettacolo del mondo, sembra inseguire soltanto le tracce del proprio cammino, sperse lungo reconditi labirintici arabeschi di cui un giorno forse si scoprirà la chiave. Ora vi si possono leggere solo vaghe assonanze con lo spostarsi dei protagonisti e col dilagare – assieme a loro – di una condizione di estraneità.”