In memoria di Antonio Tarantino

           

Antonio Tarantino                                       
(Bolzano, 10 aprile 1938 – Torino, 21 aprile 2020)                                      
In memoriam                                     

Leggi lo scritto di Franco Quadri su Stabat Mater.                           

Ascolta la voce di Antonio Tarantino alla consegna del Premio Ubu alla Carriera 2017.                           


MARIA, MERI, MARI'
 …perché mio caro Giovanni

per aspettarti ti ho aspettato

altroché se ti ho aspettato

per favore

non dirmelo perché per aspettarti

ti ho aspettato

àivoglia che ti ho aspettato e

non dirmi che non ti ho aspettato

non dirlo neanche per scherzo sennò

ti cavo un occhio caro il mio Giovanni

essì che ti cavo un occhio

io ti levo tutti e due gli occhi

mica scherzo io

e tu lo sai Giovanni che non scherzo

perché per aspettarti ti ho aspettato

e giù a telefonare

pronto? c’è Giovanni? no?

è uscito col mezzo

ma poi torna Giovanni

chi sei? sei Maria? ciao Meri

come va l’amore?

sì sì Giovanni torna

tu non pensarci che quello torna

àivoglia che mi torna e se mi torna

mi torna mi torna

eccome che mi torna

ma te non pensarci che quello torna

àivoglia che mi torna

te fregatene Marì

ma quale fregatene e fregatene

io non me ne frego manco per niente

me ne frego

ma che ci ho scritto sale e tabacchi?

ma che sei scema che io me ne frego?

ma non ci penso nemmeno di fregarmene

che mica sono una deficiente e

a Giovanni gli spacco la faccia gli spacco

che ti credi?

che se uno dice guarda che alle dieci ci sono

e invece non c’è

e ti dico che non c’è e non c’è

perché io l’orologio ce l’ho e

non ci ho mica un orologio di plastica dei marocchini

no no io ci ho l’omega mica cavoli

e con l’omega mica si scherza

che è roba mia

movimento àncora venticinque rubis

roba svizzera, che fai scherzi?

e se l’omega ti dice che sono le dieci

àivoglia che sono le dieci

e come no che sono le dieci

e se lo dice l’omega

tranquillo che sono le dieci dappertutto:

e Giovanni non si è visto

e anche sabato scorso non si è visto

e io a telefonare alla moglie

pronto c’è Giovanni? no?

e quando torna Giovanni?

sei Meri? ciao Meri

come ti girano le ovaie?

Antonio Tarantino, incipit di Stabat Mater, Ubulibri, Milano 1997.


Il mito quotidiano in una scrittura che è già teatro

di Franco Quadri

Non so se sia un’ossessione religiosa quella che Antonio Tarantino si trascina dietro nel guardare la dolorosa realtà che lo circonda, o se l’incombere della Passione come archetipo del quotidiano non incarni per lui l’essenza del mito. In effetti in certi suoi testi il richiamo alla fonte sacra s’avviluppa a quella laica (ma all’origine pagana e misterica) che la classicità riversava nella tragedia, o lascia spazio direttamente agli eroi delle sue storie. Comunque nella sua concezione drammaturgica in principio sta il Mito, considerato un filtro indispensabile per accedere alla scena; dove questo post-aristotelico approda dalla sua pittura, caratterizzata dalla trascrizione di vocaboli e di steli, carica di messaggi calligrafici dal fascino orientale. Ma in teatro queste parole devono vivere; delle persone le pronunciano, vi reagiscono, le riempiono: e con loro sarà la concretezza attuale del nostro mondo ha irrompere sotto lo specchio mitologicamente imposto di un santo o comunque consacrato modello.

Attenzione, non intendo teorizzare, perché già l’autore – a priori o a posteriori – sembra incline a farlo, seguendo diverse argomentazioni, rispettabili anche se svianti rispetto all’immediatezza violenta di una scrittura istintiva, peraltro sottesa a rituali ciclicità, ingenua nel riferirsi al fatto tangibile, peraltro isolato e trasfigurato nel contesto. Mi propongo soltanto di trovare per un’opera indiscutibilmente singolare, che si è rivelata con forza all’orizzonte italiano della prosa, una chiave di lettura razionale. Era stato subito questo senso di un’immanenza antica, e di un inavvertibile formalizzazione, nel fluire straripante della grossolanità quotidiana, a colpirmi: come se la volgarità dell’intercalare di Maria Croce e la sua aderenza inconscia al profondo, manifestata attraverso un visualizzare morboso e tattile, fossero già da tempo fissate, preesistenti, sottratte all’arbitrio suo e di chi le coglieva, destinandole al travestimento della scena. Stabat Mater mi era arrivato in casa editrice nei primi mesi del ’93, con poche righe di accompagno, una premessa dattiloscritta e un glossario per i termini dialettali o di gergo, in una busta come ne recapitano tante; e solo per una combinazione fortuita, la sera, rientrando, mi ero portato il copione con me.

Non fu per una combinazione fortuita che non riuscì a sottrarmene prima di essere arrivato alla fine, preso da un gorgo che non sapevo dove portasse, catturato dall’arcano affondare nel passato di quei gridi che arrivavano da molto vicino, ricalcati da una cronaca di vita. Era impressionante l’impasto espressivo: un patois di sott linguaggi emarginati che, codificando lo spreciso, mi tenevano avvinto prima ancora di essere in grado di afferrare il tema, con il loro procedere a spirale avvolgente, senza smettere di dilatare con ritmici inserti di incidentali gli stessi giri di frasi, per andare a ripescare gli ami già lanciati poco più in là, arricchiti di ulteriori coloriture. Ricordo che a un certo punto, per meglio orientarmi, ero tornato indietro a cercare il titolo del copione, che m’era sfuggito. Il discorso del testo giostra infatti su un accumulo progressivo dei motivi matericamente immessi: il flusso verbale nasconde il proprio direzionamento a un’azione, nel riflettere gli andirivieni di un pensiero ad alta voce che lì per lì si costruisce degli interlocutori e li evidenzia, investendo un brulichio di personaggi.

La protagonista che li evoca, nel citato inanellare concentrico di frasi ritornanti, mutuando da Bernhard anche le scansioni ritmiche (ma la prima versione non le determinava con lo spezzamamento degli a capo sulla pagina), parla il dialetto misto e imbastardito degli immigrati saliti dal Meridione; assimila cioè e deforma un frasario imparaticcio di luoghi comuni rubati da vive voci, cercandosi una seconda pelle, ma lo fa lampeggiare con rimbalzi sulle cose in vetrina, coinvolgendo slogan, diktat pubblicitari e la povera dialettica degli insulti. Ed eccola, questa Maria, stagliarsi urlante come una Magnani, allegra e dolorosa, arrabbiata e sfottente, plastica visione popolaresca di una vitalità ferita: una donna sconfitta, animata dal ribollire delle proprie contraddizioni. (…)

Da  Antonio Tarantino, Quattro atti profani, Ubulibri, Milano 1997.

Ascolta la voce di Antonio Tarantino al conferimento del Premio Ubu alla Carriera nel 2017 al Piccolo Teatro Studio Melato di Milano.