La Lolita di Ronconi inventa il nuovo teatro

recensione di Franco Quadri a Lolita, sceneggiatura, regia di Luca Ronconi da Vladimir Nabokov

da "la Repubblica", 23 gennaio 2001

 

(foto di Marcello Norberth / Piccolo Teatro di Milano - archivio sito www.margheritapalli.it - www.lucaronconi.it)

 

Supera ogni aspettativa l'attesissimo Lolita, sceneggiatura di Luca Ronconi al Piccolo Teatro: come dice il titolo infatti non è semplicemente uno spettacolo. Mettendosi sulla scia di Nabokov, che aveva suscitato uno scandalo con un romanzo nato come gioco letterario travestendo il proprio approccio a una lingua e ai misteri di un continente nella vicenda di un immigrato catturato dal miraggio di una ragazza definita con un neologismo "una ninfetta", il regista inventa un genere. L'aveva già fatto montando in teatro dei romanzi senza intaccarne la struttura originaria, ma stavolta i livelli dell'operazione sono tre, perché c'è da mettere in scena un romanzo, trasformato dall'autore in una sceneggiatura tradotta squisitamente da Ugo Tessitore e pubblicata da Bompiani, ma non utilizzata per la sua lunghezza da Kubrick.

Legato anche da una passione di entomologo allo scrittore russo specializzato in pastiche letterari e linguistici, Ronconi è per sua natura portato a sperimentazioni sempre nuove; e anche ad amare l'impossibile come il protagonista di questa storia. Ma si tratta anche di demistificare dopo cinquant'anni un'ossessione scambiata per pedofilia da chi non ha letto il libro. Humbert Humbert, scrittore europeo come Nabokov, ritrova infatti nella piccola Dolores, detta Dolly, per scherzo Lolita, o più intimamente Lo, la copia d'un mito letterario o d'un perduto sogno d'amore infantile. Anche se Franco Branciaroli, magistrale Humbert, cade dalla sedia al solo vederla, è lei a provocarlo al "gioco di moda" fra i suoi coetanei, non lui a sedurla, come farà invece il suo rivale in amore, l'infernale Quilty, a sua volta scrittore: quasi un doppio del protagonista il quale lo elimina alla fine, spostata nello script all'inizio. Giustamente lo spettacolo non fa di Lolita un sex symbol come la Sue Lyon di Kubrick, ma semmai incrudisce la situazione mostrandocela come una vera bambina dalla grazietta acerba: Elif Mangold non è un'attrice ma una ragazzina reclutata in una base Nato; si presenta nella sua naturalità di elemento estraneo parlando americano, doppiata da Galatea Ranzi che s'aggira via via d'attorno con un trucco d'occasione e solo alla fine assume splendidamente il ruolo più maturo di donna incinta, destinata a sua volta a morte prematura.

A differenza del romanzo, scritto in prima persona, qui opera un narratore, interpretato con invadente malizia da un Giovanni Crippa calvo che, come gli altri personaggi, viaggia spesso trasportato su binari, dando l'impressione della carrellata cinematografica tra mobili, auto, plastici dei luoghi, accessori vari in movimento. Gli ambienti si delineano invece nella loro completezza su un enorme schermo (più altri due di supporto o d'alternativa) dove, tramite computer, oltre agli interni e alle panoramiche, sfilano gadget, cartoline, giornali, vecchie foto, scritti, mucche sane, particolari di scena ingranditi, creando una scenografia dinamica che ispira gli interventi non virtuali di Margherita Palli: uno zoom su una scala o su una porta, o sul prato dove si scorge la prima volta Lolita distesa, precede il materializzarsi di questi elementi scorrendo al suolo o lungo il muretto di fondo appoggiato al maximonitor con un'efficacia impressionante nell'immetterci dentro all'azione, al suono delle melense musiche da film selezionate da Paolo Terni.

Questa spettacolarizzazione globalizzante spiazza del tutto lo spettatore che resta senza fiato all'inizio, in diretta connessione con l'ingresso del protagonista in un mondo che non conosce e che vuol penetrare: e rivive con la feroce ironia di Nabokov la volgarità della provincia Usa, parodiando a un tempo la sophisticated comedy, che trova dei segni stilisticamente perfetti nei gesti e nella voce dell'esilarante Laura Marinoni, madre di Lolita ed effimera moglie di Humbert. Ma nel succedersi pressante e non realistico di spezzati d'ambiente evocati dalla fluidità del racconto, l'attenzione si ferma spesso anche su dettagli curiosi messi a fuoco con sarcastico minimalismo. Dopo la morte della madre e l'istantanea luna di miele ai "Cacciatori incantati" comincia per l'insolita coppia il giro dei motel descrivendo una geografia americana che riempie gli schermi di paesaggi, mentre di rinforzo s'inserisce qualche brano del romanzo, prima che la ricerca ossessiva di Lolita scomparsa ci conduca verso altre parodie schiettamente teatrali di matrice simbolista, senza ignorare l'incontro con l'autore a caccia di farfalle.

A un tratto Ronconi interviene di persona sul palco a ricucire la trama introducendo una sorta di trailer di tre episodi tagliati, il che non guasta l'atmosfera svariante del contesto, e limita una durata prossima alle quattro ore, piene comunque di sorprese e di idee. E intanto si esaspera l'orizzonte di Humbert Branciaroli, sempre più macerato dall'angoscia del nonsenso nella sua emozionante corsa verso il vuoto, che lo porterà infine tra le lamiere da bidonville di una città sperduta all'estremo incontro con una Lolita diciassettenne e appassita. È il terminal di un grande amore e di un grandissimo spettacolo che apre al teatro altri orizzonti, con un cast pienamente coinvolto dai vertici memorabili, di cui vanno ancora ricordati almeno Massimo Popolizio, il ghignante fauno assassinato, Antonio Zanoletti, Manuela Mandracchia, Franca Penone, Fernando Maraghini, Valentino Villa, con i costumi di Jacques Reynaud e le superbe immagini video dello Studio 2EFFE.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(dall'archivio di Riccione Teatro)

 

In ricordo di Luca Ronconi, leggi anche gli scritti dei referendari del Premio Ubu