Gesù e l'amore, forse

di Franco Quadri

(da Visioni di Gesù con Afrodite, di Giuliano Scabia, Ubulibri, Milano 2004)



All’inizio di questo testo si impone un’immagine semplice e poetica. Un Gesù giovinetto in tunica bianca e una Afrodite nuda, appena uscita da quelle spume del mare da cui il mito la volle far nascere (ma la sua reale identità ci viene dichiarata solo dal titolo). Due dèi freschi, ancora nuovi alla vita, in qualche modo incoscienti del loro essere, anche lei per quanto la sua naturalità femminile la faccia apparire più disinvolta: lui che sa soltanto di essere stato inviato sulla terra da molto in alto a morire per amore dell’umanità; lei, che l’idea dell’amore incarna, pronta a negargli la capacità di toccare un tema del genere senza avere mai ‘conosciuto’ una donna. Eppure si guardano e si piacciono, per quanto il figlio di Dio possa dubitare di trovarsi di fronte alla proiezione di un suo desiderio; e la sfugge.

Ma la visione, suggerita dalla purezza incantata e deliziosamente infantile che investe Giuliano Scabia quando scrive delle grandi cose della vita, cattura chi legge, tanto da non permettergli di staccarsi dalla pagina finché il racconto non arriva alla chiusura, ponendoci di fronte a un ultimo colloquio tra i due, prima che rientrino ciascuno nella propria orbita, mitologica o religiosa che sia. Ma, subito dopo la scena d’apertura, Gesù incontrerà una seconda donna in apparenza molto simile alla prima, Maria di Magdala, professionista dell’amore, che trova infestata dai diavoli; e allora la esorcizza e lei per contraccambiare gli insegna a ballare e gli fa sentire il fuoco del suo corpo. Seguirà subito l’irruzione di una matta in delirio da lui subito calmata con un abbraccio, a completare il trittico delle provocazioni femminili con cui, senza ingenuità né malizia, l’autore si preoccupa di confrontare Gesù per rispondere in modo più diretto alle esigenze fisiche della natura scelta per la sua avventura umana, da cui la Chiesa ha cercato a posteriori di proteggerlo riducendolo a cocco di Madonna con contorno di pie donne, forse per adesione alla teoria di quell’apostolo che, nel testo, al momento della resurrezione, dirà che il figlio di Dio sceso in terra non poteva che essere a un tempo totalmente uomo e totalmente donna.

Ciò che dà senso e verità a questa figura è il suo sapere soltanto a cosa è destinata, ma rimanendo continuamente costretta a chiedersi come arrivarci, in preda al dubbio sulle proprie capacità reali di essere in grado di realizzare quel che da lui ci si aspetta. E infatti questo Gesù aspetta quattro giorni la morte di Lazzaro, senza guarirlo da vivo per potersi mettere alla prova di fronte alla morte, dato che dovrà affrontarla ben presto di persona e non si sente neppure sicuro di ottenere dal Padre i mezzi per resuscitare l’amico. Ritrovarsi uomo significa per lui non avere le certezze dell’entità superiore, tanto da evitare fino all’estremo a ricorrervi: dubita infatti prima di tutto di se stesso, ma anche delle visioni che lo ossessionano e che confonde spesso con tentazioni, e forse, come i miracoli che gli vengono attribuiti, lo sono (“Siamo certi che non vengano da dentro di noi? Da noi, dico.”)

Un altro da sé in cui specchiarsi lo trova allora, nelle pagine centrali del mistero rivisitato, in Giuda, l’unico che il protagonista gratifica dell’aggettivo “amato”: Giuda, personaggio profondamente umano e ansioso di credere, che gli rimprovera il dubbio, lo incita alla fede e, non riuscendo più a cogliere una logica delle contraddizioni del maestro, finisce per trovare in quella che ormai arriva a giudicare un impostura la giustificazione per un tradimento causato da un eccesso di buonafede.


GIUDA Non voglio questo pane. Tu stai solo facendo una rappresentazione di te stesso per noi. Stai cercando di imprimerci il tuo potere attraverso il ricatto della tua morte.

GESÙ È vero. Tu l’hai capita, Jude, l’essenza dei sogni e delle visioni. Ma ora ti sei escluso. Non vuoi più giocare con me.

GIUDA Non è un gioco. Non ti credo, è vero. Non credo al tuo incantamento. (…)

GESÙ Non morire, Giuda, non morire. Continua a giocare con me. Non smettere di credere.

GIUDA E tu, ci credi ancora?

GESÙ Sì, io ci credo. (Giuda sorride, ma si vede che è triste). Poco fa ho sentito un brivido. Ho percepito la tua paura per avere visto il vuoto.


È questa scelta di un linguaggio quotidiano e contemporaneo per rendere il sacro ed esprimere una supposta verità che ha cambiato il mondo a farci aderire a una cronaca ispirata che ai toni drammatici preferisce la levità della fiaba; e difatti alla cena fa seguire una lezione di ballo di Maria di Magdala a Gesù, mentre gli altri commensali cantano, e intanto si organizza la partenza per Gerusalemme e quindi il cammino verso la via crucis, che non perderà i caratteri di immediatezza quotidiana di tutta l’azione. La stessa impronta viene trasmessa anche al discorso della montagna, in uno degli Inter mezzi di riflessione, commento o completamento, che si infilano nell’azione; e se non tutti sono da recitare, e l’autore ammette di averne a volte è saltato alcuni nelle esecuzioni da lui curate, si tratta di sezioni utili anche alla lettura per la loro complessità di piani e le aperture e gli accostamenti che consentono, scendendo anche gli interventi dei supposti interpreti di turno da quelli dei personaggi. E, proprio alla fine della scena con Giuda appena citata, compare anche un breve brano poetico dell’insurrezione dei semi già pubblicata in questa collana. Non a caso anche questa storia confrontata con spezzoni di ipotetica realtà e rivissuta da vicino con un vivo senso dell’immaginario, si rivela nelle sue ultime sequenze uno degli episodi del teatro pagante, il lungo viaggio iniziato da Giuliano Scabia negli anni Sessanta e già quasi giunto alla trentesima puntata, sulla scena e nella mente, tra terra e cielo. Un percorso per attori, e per dèi.

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