Sotterraneo per Pan Ubu

Noi abbiamo deciso di rimetterci a lavorare. Dopo quasi tre mesi di silenzio e stasi, ci è venuta voglia di agire sulla condizione presente e vedere cosa riusciamo a fare.

Perciò ve lo diciamo subito: il primo che prende in mano un megafono e urla cosa deve essere o non essere il teatro è anche il primo che smetteremo di ascoltare all’istante.

Per noi, che tutti facciano quello che possono e che tutto esploda in direzioni non prevedibili. Tanto le cose come stavano prima mica andavano bene, no?! “Che tutto continui così è la catastrofe”, ce l’ha detto Walter Benjamin durante i primi giorni di quarantena: lui è così, sempre un po’ drastico, a volte esagera, poi nelle videochiamate non è facile capirsi bene, viene a mancare gran parte della comunicazione non verbale ma insomma il senso era quello, si è fatto intendere anche su Zoom.

Forse stiamo vivendo il nostro spillover: c’era il Teatro, ora c’è il Teatro-al-tempo-del-Covid, poi ci sarà il Teatro ma non sarà esattamente la stessa cosa. Davamo per scontato di poterci abbracciare e prima o poi torneremo a darlo per scontato: nel frattempo avremo fatto un teatro capace di ricordarci la meraviglia del primo abbraccio post-pandemia? Pensare su scala globale suonava astratto mentre adesso bene o male ci sentiamo connessi a ogni terrestre esposto al virus: in questi mesi riusciremo a radicare i nostri discorsi fuori dal ristretto ecosistema teatrale in cui operiamo? Il nostro salto di specie è necessariamente anche un salto di immaginario.

E il salto è per definizione incontrollato: qualcuno discuterà con le istituzioni su normative e risorse, qualcuno ascolterà i programmatori e le richieste dei territori, qualcuno farà teatro dal vivo per come sarà possibile farlo, qualcuno userà estratti di repertorio fra monologhi, soli e scene a-prova-di-Covid, qualcuno lavorerà con cuffie e visori VR, qualcuno metterà in scena il distanziamento sociale, qualcuno agirà online in conflitto col medium e la sua lack-of-liveness, qualcuno aprirà la ricerca mostrando al pubblico come si passa una settimana di prove su un'unica scena senza venirne a capo, qualcuno non produrrà assolutamente nulla ma magari andrà a vedere tutto, qualcuno studierà come un forsennato per fornire strumenti teorici a cavallo fra performing-arts e cittadinanza, qualcuno documenterà tutto per una futura archeologia teatrale, qualcuno smetterà di fare teatro, qualcuno infine cercherà altri artisti di cui sente vicino il linguaggio e insieme si domanderanno come fare a impattare su un pubblico e un immaginario allargati, più allargati di com’è stato fino ad adesso: che tutto continui così è la catastrofe.

Quando l’ambiente muta, l’evoluzione sperimenta: i rapporti di forza fra le specie cambiano, animali piccoli e marginali si diversificano e prosperano perché improvvisamente diventano i più adatti a replicare pacchetti di informazioni di generazione in generazione… forse oggi lavorare in teatro significa usare una finestra evolutiva per cambiare la catena alimentare presente, coi rischi che questo comporta e coi dubbi, i conflitti, l’indeterminatezza. Per questo nelle interviste noi diremo spesso “non lo sappiamo” e scriveremo un intervento per Pan UBU senza nascondere il sentimento d’inadeguatezza che proviamo nel farlo.

E comunque, nonostante tutto, progetteremo e calendarizzeremo lo spettacolo che volevamo fare prima della pandemia: perché non vogliamo uscire dalla crisi con qualcosa in meno di quello che avevamo, al contrario vorremmo uscirne sapendo che tutti si sono mossi in così tante direzioni fuori programma che alla fine avremo sviluppato pensieri e pratiche collettive utili anche per il dopo-pandemia. Significherebbe aver usato la fragilità di questo tempo come propellente per una trasformazione, di cui però conosceremo i connotati solo a posteriori, attraverso il lavoro e lo scorrere del tempo. 

Teatro Sotterraneo

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