Maddalena Giovannelli per Pan Ubu

Il protagonista di Illusioni perdute di Balzac è un (aspirante) intellettuale di provincia che approda a Parigi. Sogna di scrivere un romanzo che faccia la storia, ma si scopre brillante giornalista e recensore di teatro.

A rileggere oggi quelle pagine, si resta impressionati nello scoprire quanto quel quadro non risenta del tempo. Lucien è travolto da una girandola di cene e brindisi in cui dilapida i pochi soldi guadagnati, notti lunghe, passioni brucianti per le attrici, discussioni infuocate nel foyer. I veri innamorati del teatro - e i critici lo sono - sanno che si tratta anche di questo: del movimento, della vita che attraversa il prima e il dopo dello spettacolo, del non dormire molto, del nutrirsi dell’incontro con l’altro.

La pandemia ci fa vivere l’opposto. Scriviamo di spettacoli lontani nel tempo, cerchiamo di studiare i fenomeni e di metterli in prospettiva storica, ragioniamo nel silenzio, nel privato e nell’immobilità - cioè nel massimo grado di distanza dal teatro. Ma questi giorni sono anche un’istantanea sulle nostre vite che faremmo bene a guardare con attenzione, anche se lo scatto è crudele, e ci ritrae come non vorremmo. Sulla propria biografia, ognuno trarrà le conclusioni che ritiene. Sulla categoria professionale, invece, varrà la pena spendere qualche parola. Quanti sono, in Italia, i critici teatrali under 60 che hanno dovuto rendere conto a qualcuno (per esempio, a un caporedattore) del proprio smettere di scrivere, e rinegoziare i contenuti dei propri articoli per non perdere lo stipendio? Credo bastino le dita di una sola mano per contarli. Gli altri hanno discusso (gratuitamente) con i sodali della propria rivista come impostare (gratuitamente) la linea editoriale, e poi si sono dedicati al lavoro che dà loro da vivere. Altri hanno semplicemente smesso di scrivere, e nessuno gliene ha chiesto conto. Da tempo ho cominciato a parlare con una certa frequenza di soldi: perché è la transazione di denaro che, per definizione, sancisce lo statuto del professionista. Ogni volta che mi sono trovata in una qualche discussione il cui incipit era “perché voi critici…”, o davanti a qualche provocazione sull’etica del conflitto di interesse, mi sono sforzata di ricordare all’interlocutore che la parola ‘critico’ non implica (quasi) più la scrittura come mestiere pagato. Il più delle volte ne sono uscite discussioni vivaci, perché gli interventi diventano immediatamente più interessanti se si è disposti a strappare il velo.

Ecco perché dobbiamo avere il coraggio di guardarla bene, l’istantanea di queste settimane. E poi proviamo a mettere la nostra foto di fianco a quella dei nostri colleghi, come in puzzle, come in uno dei tanti screenshot di web meeting che affollano le nostre chat. È tanto diversa dall’istantanea degli altri lavoratori dello spettacolo, a ben guardare? C’è chi si ostina a scrivere gratuitamente e intanto mette insieme uno stipendio in modo creativo, chi ha un contratto fisso in un’azienda ma non rinuncerebbe mai a recensire, chi sta cercando fondi e sostenibilità per fare audience development, chi è disoccupato, chi insegna all’università, chi a scuola, chi scrive qualche pezzo a pagamento e per il resto si arrangia, chi lavora in radio, chi per un teatro, chi ha un sussidio Inps.

Da questa precaria diversità occorrerà ripartire domani – quando si rimetterà in moto la vertiginosa girandola – perché dei vestiti nuovi dell’imperatore non c’è traccia, ormai lo abbiamo capito. Non dimentichiamo la brutale nudità di questi giorni, perché se esiste ancora un significato unitario della parola ‘critico’, se esiste un mestiere, si annida proprio qui. 

Maddalena Giovannelli

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