Gianluca Falaschi per Pan Ubu


Tornare

Ammetto che c’era fino a pochi giorni fa una certa incapacità da parte mia di pensare al teatro, senza il teatro.

Per me è stato come fosse scomparso per due mesi; nessuno a popolarlo, amici o sconosciuti da guardare in penombra, parole e musica, pensiero: semplicemente, non c’è stato.

Progettarlo, parlane, leggerne. Avrei potuto fare questo.

Ma le matite sono rimaste ben allineate sulla scrivania, i copioni alla mia sinistra, il foglio bianco di fronte.

Sono stati due mesi di vuoto, che sono durati lungamente ma anche niente. Ho disegnato certo, senza davvero mai terminare qualcosa.

Perché appunto, non c’era.

Erano palazzi senza abitanti e senza finestre; meravigliosi monumenti, memorie abbandonate alla loro polvere, senza persone, senza comunità. Non c’era.

È da questo punto che vorrei ripartire, perché questa distanza ha sottolineato dentro di me cosa rappresenta il Teatro: al netto dell’espressione artistica, fondamentalmente è urgente comunità. Dove io mi esprimo solo perché parte di essa, non altro; come tutti, dal primo all’ultimo che ne varca la soglia.

L’opposto del distanziamento sociale, che ne è la negazione: che nega la relazione fatta di artigiani e artisti, di attori, e tecnici, e di musici e danzatori, e di pubblico che ne è parte fondante: perché il teatro è fatto in larga parte di pubblico, che agisce cosi profondamente sullo spettacolo.

Distanziamento che nega il confronto: nega gli spettacoli degli altri e le prove dei nostri, nega le parole con cui portiamo avanti i progetti e li difendiamo o li uccidiamo, nega le reazioni delle persone accorse a guardarlo, nega l’applauso e nega il dissenso.

Resto perplesso e in fondo contrario all’idea che il teatro da azione scenica possa risolversi in altri mezzi, perché appunto è un medium che necessita di essere vissuto, e mi convinco ogni giorno che a questo dobbiamo opporci: alle soluzioni che non sono teatro, alla rassegnazione.

E tornare.

Dopo due mesi di assenza, ora penso a questa distanza solo come un momento in cui organizzarsi per accogliersi di nuovo. Lavorando.

Comprendendosi di nuovo in quanto comunità, aperti invece che chiusi, inclusivi. Tornare per riflettere, ricostruire, sia la dignità che si è smarrita di lavoratori, mai cosi fragili come questa volta, che il senso della produttività, negli ultimi anni moltiplicato per ragioni burocratiche a discapito a volte della ricerca, della possibilità di sbagliare e provare, del tempo lungo necessario a costruire un universo fragile quale uno spettacolo.

Tornare. Sarà lento. Ma noi, che siamo operatori dello spettacolo, credo possiamo - anzi dobbiamo - farlo adesso, prepararlo.
Tornare, per aspettare gli altri, per rammendare i nostri costumi, tornare per prepararne di nuovi per la stagione che verrà, mentre altri dipingono e costruiscono scene, e altri scrivono drammaturgie, provandole su palco; prendendoci il tempo di farlo per bene.

Tornare, perché nella solitudine delle nostre case possiamo agire solo la memoria, non altro. Tornare e fare, per tutte le stagioni che verranno, soprattutto non solo per le nostre.

Gianluca Falaschi

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